Le gesta del Buddha
Le gesta del Budda (Asvaghosa)
La vita del Buddha – scrive Alessandro Passi – è innanzitutto una grande favola: la storia del bellissimo principe che il padre vuole tenere all'oscuro degli orrori dell'esistenza, e invece accidentalmente li scopre. I mali in questioni sono radicati nello stesso esistere dell'uomo: la malattia, la vecchiaia, la morte. E tali mali non possono essere eliminati dal padre, che pure progetta per il figlio il migliore dei mondi immaginabili. In questo libro, Le gesta del Buddha, ci viene raccontato il percorso di apprendimento svolto dal Buddha, che impara a relazionarsi a questi grandi mali, che solo apparentemente sono invincibili.
Il percorso del Buddha, orientato verso l'illuminazione finale, è lungo e ricco di esperienze. La narrazione di Asvaghosa, che a detta di A. K. Coomaraswamy è "il più grande poeta del buddhismo", ci presenta la sua storia come un'avventura fiabesca, in cui non c'è semplicismo, perché tutto serve a mettere in luce le esperienze simboliche e profonde che sono l'essenza stessa dell'apprendimento buddhista.
Sappiamo che la cultura classica indiana e buddhista rifugge dalle collocazioni storiografiche; le date sono ambigue dove già non sono assenti. Il pathos della narrazione – delle stesse storie, dell'intendere un racconto e la sua verità propria – è insito nel significato del fine che l'esperienza realizza. Leggiamo che il padre del Buddha disse ai brahmani: "O magnanimi, qual è la causa di questa eccellenza, che io vedo un tal figlio quale non fu mai visto dai sovrani precedenti?". E a ciò gli fu risposto: "In ingegno, saggezza, gesta e fama, il criterio non è dato da priorità o da posterità, o re; apprendi dunque i nostri esempi, poiché, nel considerare i fatti, sono le gesta stesse a essere determinanti". E poi si aggiunge: "Quel trattato di politica reale che Bhrgu e Angiras, veggenti capostipiti, non composero, lo fecero al momento opportuno i loro due figli Sukra e Brhaspati (…) Pure il figlio di Sarasvati tornò a proclamare quel Veda perduto che gli antichi non comprendevano più; così pure Vyasa lo divise in molte sezioni, quello stesso Veda che Vasistha non aveva diviso per incapacità".
Il passi che qui abbiamo citati sono estremamente eloquenti. Ci dicono che, a un certo punto dell'immemore storia del popolo indiano, si era perduta la cognizione delle leggi morali che animavano la Tradizione. Non avvertendone più il senso, le stesse leggi scritte e perpetuate nelle fonti vediche, le stesse parole apparivano come vuoti ornamenti, come strumenti privi di senso intrinseco. Da qui è scaturita l'idea – resa centrale nel pensiero buddhista – della preminenza delle opere sulle parole. Quel che conta, come infatti è detto, sono le gesta. Perché un uomo sia grande, è necessario che abbia svolto grandi opere. Non si tratta di opere "grandi" nel senso di magnificenza; si intende la loro grandezza secondo il criterio dell'esemplarità, ossia nella misura in cui trasmettono efficacemente un'idea superiore che deve valere per tutto il popolo.