News 4 luglio 2011
Da contatti avuti con Clara Sereni a proposito del suo incontro con il gruppo di lettura nell'ambito degli "incontri con l'autore", lei consiglia la lettura del volume Il lupo mercante al quale tiene particolarmente. Nell'incontro del 13 settembre penso sia giusto proporre questa lettura per completare la serie dedicata a Sereni.
Di seguito inserisco una breve recenzione del libro "Le Merendanze" in lettura per il prossimo incontro con la sicurezza che possa essere utile a chi si appresta a leggerlo o a chi lo ha gia letto.
Da LeggereDonna, maggio-giugno 2005:
Clara Sereni, Le merendanze, Rizzoli, Milano 2004, pp. 236 € 15. di Clotilde Barbarulli
Storie di cinquantenni colte in un momento d’inquietudine, una forma di bilancio esistenziale, come sospese, a disagio nel ritmo usuale del quotidiano e dei rapporti affettivi, amiche non intime che s’incontrano con l’alterità attraversando la perturbante, con paure e pregiudizi, ma anche con curiosità e disponibilità, e ne escono meno sole, capaci di affrontare “passioni sghembe” e “incontri non scontati”. Ognuna è narrata in momenti che lasciano trapelare incrinature nelle scelte di vita e di lavoro: dalla “metodica organizzazione domestica” di Giulia, alla tenacia di Laura nel contenere il disordine dei figli e del marito (oltre l’ombra della presenza materna), alla rigorosa forse eccessiva indipendenza di Lucilla avvocato, alla difficoltà di essere coppia di Francesca e Caterina.
Cinque donne native ed altre, ragazze-madri, prostitute, migranti, nel timore e nel desiderio del confronto: il progetto di solidarietà creerà uno scarto dal quotidiano che le costringe a mettersi in gioco, ad interrogarsi. La diversità qui non riguarda il disabile, come negli altri libri di Sereni, ma è la diversità, impalpabile, dell’essere donne in certi momenti di fragilità, anche psicologica, è la diversità dello stare insieme all’Altra da sé (la migrante, la lesbica…) con percorsi e provenienze differenti.
Tutto comincia dal discorso del vescovo che invita a chiamare gli immigrati al pranzo di Natale: questa possibilità – che fa paura ma insieme attrae – s’infiltra nelle esistenze delle amiche che, in vario modo, consapevolmente o inconsapevolmente, sono alla ricerca di qualcosa di diverso nel loro quotidiano. Non solo le fa conoscere in profondo fra loro, ma le fa incontrare – tra curiosità, diffidenza, razzismi e apertura – con le ‘straniere’. L’autrice le segue nei loro passaggi emozionali, nei momenti di riflessione, nell’intrecciarsi di progetti e rapporti, nell’ affrontare la perturbante,
l’Alterità che è fuori di loro, l’Alterità che è in loro. Il pranzo con Svetlana, Liuba e Valentina, non è facile (anche se Giulia si era sentita sollevare alla possibilità di ospitare tre slave: “la sua idea di immigrati – paura – sono gli Arabi sulle scalette del Duomo, i traffici presumibilmente di droga”), ma ben presto “cominciano a ridere, come ridono le donne quando sono insieme. Donne comunque, non importa di quale paese”. Ed alla fine si manifesta una sonnolenza “piacevole di tutte. Il caldo del cibo e del vino: non servono parole, adesso, solo i piccoli gesti d’affetto delle donne, il loro toccarsi leggero”. Sono proprio i saperi ed i linguaggi non verbali a rompere lo spazio della diffidenza ed a creare una momentanea ‘casa’, un nuovo spazio fra le abitazioni delle amiche e la Casa tenuta dalle suore, una convivenza tutta da costruire: lì, la preparazione del cibo, con i suoi tempi e modalità, è il dono che native e migranti si fanno nel lavorare insieme, mentre “le parole restano difficili da intrecciare”: il cibo come metafora dell’incontro fra culture diverse, a sottolineare lo spazio della complicità e del possibile dialogo, aiutando a superare il muro di silenzio e di sospetto che separa dall’Alterità. Qui non è assunto a protagonista di un’intera vicenda come in “Casalinghitudine”, e tuttavia attraversa tutta la narrazione e produce il contatto sia fra le native sia con le migranti: il cibo come un ‘linguaggio parallelo’ per aggiungere qualcosa in più alle parole.
Vengono fuori anche storie di violenza con la scoperta, alla Casa d’accoglienza, delle inferriate “pesanti, strette” per proteggere dalle vendette: il piccolo mondo familiare delle amiche, è perturbato, ma si apre con l’idea di un progetto comune per trovare soldi: un mercatino, ma di oggetti belli, per i quali le amiche riciclano il passato riutilizzando antiche passioni, ed un “merendanzo” allo scopo di raccogliere fondi: “la preparazione del cibo è stare insieme, e le parole vengono meno difficili, e c’è la curiosità di imparare “cipolla” o “aneto” in una lingua o nell’altra”.
La ricerca di un luogo, il lavoro per degli oggetti da vendere, in cui è coinvolta anche la madre di Laura, unisce sempre più le amiche e le lega alle immigrate: i preparativi sciolgono piccoli e grandi nodi, sia fra loro sia dentro di loro, riempiono la vita, danno sicurezza e capacità di guardare oltre i loro problemi familiari e sentimentali.
Il gran giorno è turbato dalla polizia e poi dalla mancata risposta della gente del luogo, ma: “piano piano tutte si danno la mano, con le grandi V delle braccia a rispettare le distanze e quel modo originario, infantile di sentirsi con il corpo: come un girotondo congelato, un gioco e un inseguimento che necessariamente, prima o poi, avrà una propria capacità di movimento” .
Attraverso il finale ancora una volta Clara Sereni riesce a darci le lenti dell’utopia offrendoci “un pezzetto di futuro in più”: è una piccola rivoluzione dentro ogni donna, e nel rapporto col mondo, mentre cambia lo sguardo ‘politico’ sulle migranti.
Clara Sereni, in un’intervista, ha messo in rilievo che il mondo attuale ha tolto ogni valore al dolore, giocando sull’indifferenza e su immagini rassicuranti. Eppure abbiamo guerre, disoccupazione, esclusione, povertà: misurarsi con la sofferenza (individuale e collettiva) significa – io credo, come in questo romanzo – “recuperare un senso etico del fare”. L’autrice, che si dichiara ultimista perché gli “ultimi” sono fuori della Storia, ha sempre scritto del dolore e della ricerca di felicità in varie forme, sia attraverso il problema dell’handicap, sia guardando al nucleo familiare o alla politica istituzionale, ora, in questo libro, narra di soggettività femminili che – fra inquietudini, delusioni, speranze, desideri e incertezze – riescono a mettere in atto una progettualità segnata dalla relazione: “mantenere una distanza, non fingere condivisioni e però stare insieme”.
Il mondo occidentale oggi è chiuso più che mai – dice Toni Maraini – ai/alle migranti, tuttavia in “Merendanze” si profila la novità di una rivoluzione dolce, fra diverse, con una sua capacità di movimento. Il libro si snoda e si chiude senza la retorica del multiculturalismo, ma, nella consapevolezza delle difficoltà, rilancia un’utopia di fronte al progressivo impoverimento di convivenza cui assistiamo nelle città e nel mondo intero. Non un lieto finale, ma un percorso, ancora all’inizio, che porta a un “darsi la mano” fra donne: il movimento finale mette in scena una poetica della relazione (Glissant), uno spazio, reale e simbolico, in cui “stare insieme”, nella diversità, per una politica altra.