Incontro 11 febbraio 2014

Incontro del gruppo di lettura presso la Biblioteca Comunale ore 21.00, P.zza Garibaldi 3, primo piano.

 

 

Yasmina Khadra "L'attentatrice"

In un ristorante affollato di Tel-Aviv una donna che si finge incinta fa esplodere la bomba che teneva nascosta sotto il suo vestito. Per tutta la giornata il Dottor Amin, israeliano di origini arabe, opera a ritmo da catena di montaggio le innumerevoli vittime di questo ennesimo attentato. Amin si è sempre rifiutato di prendere posizione sul conflitto che oppone il suo popolo d'origine e quello d'adozione. Nel cuore della notte viene richiamato d'urgenza in ospedale dal suo amico poliziotto Naveed che gli annuncia che la moglie è morta e per giunta era lei la donna kamikaze. A questo punto Amin comincia la sua particolare investigazione sulla donna misteriosa che ha vissuto per anni insieme a lui.

 

2 Responses to “Incontro 11 febbraio 2014”

  • admin scrive:

    Recensione da (Paginauno n. 1, febbraio – marzo 2007)

    Sappiamo subito, sappiamo tutto. Stampa, notiziari televisivi, accesso collettivo alla rete, tutto concorre ad alimentare un’illusoria presunzione di onniscienza. Illusoria davvero perché, a pensarci bene, il nostro “tutto” spesso non è altro che la solita visione permessa dall’esiguo pertugio dal quale siamo stati abituati a guardare da sempre; coordinate sicure entro le quali muoverci per giudicare gli avvenimenti, separare i buoni dai cattivi, tollerare, a volte, eventi che civiltà democratiche non dovrebbero neppure riconoscere come possibili.
    Sarebbe utile, per una volta, muovere un primo passo verso direzioni diverse, magari le stesse intraprese dal “nemico”. Sforzarci, cioè, di considerare le ragioni dell’altro senza ricorrere a stereotipi o formule preconfezionate e, per quanto possibile, usare il suo punto di vista per percepire la realtà in modo differente da come siamo stati abituati a fare.
    A volte questo primo passo può essere fatto da fermi, aprendo un libro. E’ certamente con l’intento di offrire questa possibilità che Yasmina Khadra, alias Mohamed Moulessehoul, ha avviato, con Le rondini di Kabul, una trilogia proseguita con L’attentatrice e ultimata con Le sirene di Bagdad (al momento in cui scriviamo uscito solo in Francia).
    Il messaggio di Yasmina Khadra sembra specificatamente rivolto al mondo occidentale, del quale soffre la visione miope e stereotipata, quando non addirittura la cecità, nei confronti delle realtà mediorientali e islamiche.

    Per questo le storie, ambientate in paesi dilaniati dai conflitti e segnati dal fondamentalismo, non vengono proposte al lettore ricorrendo a comode confezioni ideologiche o agli stereotipi delle “opposte fazioni”; il lettore entra dalla porta del privato, dell’individuale nel quale è facile riconoscersi, per poi trovarsi nel cuore della dimensione storica e politica, ormai costretto ad osservarla attraverso le nuove lenti che Khadra gli sta offrendo; una dimensione costituita non da nomi, fatti, date, ma dalle lacrime, dalla rabbia e dal dolore di persone che in questa dimensione vivono e muoiono. Che si tratti di personaggi letterari poco importa, se aiutano il lettore a comprendere.
    Non a caso, se è vero che il destinatario scelto da Khadra è il lettore occidentale, l’io-narrante de L’attentatrice è un palestinese naturalizzato israeliano, stimatissimo chirurgo e quindi votato alla vita, determinato ad escludere l’orrore del mondo esterno dal proprio piccolo paradiso privato, e che sulla realtà palestinese proietta l’ombra di un muro peggiore di quello che delimita i territori, quello eretto dall’indifferenza: eccezion fatta per la nazionalità, un ritratto piuttosto fedele dell’uomo occidentale.
    Saremmo quasi tentati di lasciarci convincere da Khadra ad identificarci con questo sereno e appagato – almeno nelle prime pagine – dottor Amin Jaafari, se non venisse ogni tanto da chiedersi fino a che punto ci piaccia davvero questo suo estraniarsi dalla realtà politica e confondere la mescolanza con l’annullamento di sé.

    Fingersi diversi non serve – prova ne sia che gli eventi lo riporteranno allo status di “indesiderabile” per i suoi stessi colleghi e vicini di casa – e chiudere gli occhi è sbagliato.
    Infatti a lui, così come al lettore, Khadra gli occhi li vuol fare aprire e in questo caso (ma anche ne Le sirene di Bagdad) persegue l’obiettivo attraverso la figura perturbante per antonomasia: il kamikaze.
    E’ indubbiamente un tentativo audace, da condurre con la precauzione di un funambolo che abbia sotto di sé il baratro dell’apologia da un lato e le sabbie mobili della condanna aprioristica dall’altro.
    Khadra cammina sulla corda tesa con estrema abilità, nonostante sia molto palpabile il potere attrattivo dell’orrido al quale si oppone. Lo fa con un ritmo sostenuto, quasi da romanzo poliziesco, concedendo ogni tanto momenti poetici e intensi.
    Il dottor Amin Jaafari scoprirà, dopo aver passato lunghissime ore nel tentativo di salvare i superstiti di un ennesimo attentato suicida avvenuto in un fast food di Tel Aviv, che l’attentatrice è la sua dolcissima e amatissima moglie Sihem, una giovane donna cosmopolita, integrata come lui nella realtà israeliana e apparentemente altrettanto felice e appagata.
    Al trauma della sua morte si aggiunge perciò quello della scoperta, disperatamente negata fino alla resa davanti a una prova inconfutabile, di una Sihem feroce e disumana a lui sconosciuta.

    Ma gli occhi di Amin non sono ancora aperti, e ciò che lo spinge a intraprendere un viaggio alla ricerca della vita segreta di Sihem nei luoghi che ne sono stati testimoni, è un bisogno – ancora strettamente personale – di comprendere la richiesta di aiuto che Sihem “deve” avergli trasmesso e che lui non è stato in grado di cogliere. Affronta questo viaggio, dai colori spesso sulfurei, con la determinazione cieca di chi vuole sapere, anche a rischio della propria vita, in che cosa ha sbagliato, che cosa non ha dato alla propria moglie.
    Fabula e intreccio vanno di pari passo, se si esclude la prolessi iniziale, terribile e orrorifica, ripresa nell’epilogo. Quindi camminiamo con lui nei luoghi dai quali si era allontanato anni prima, in una sorta di Commedia capovolta, dal suo piccolo paradiso privato (e definitivamente perduto) di Tel Aviv, al purgatorio di Betlemme per finire nell’inferno di Jenin.
    E lentamente gli occhi si aprono, grazie alla povertà e alla sofferenza per anni rimosse e che gli si parano prepotentemente davanti, grazie all’incontro con il fanatismo ma anche, soprattutto, con le ragioni dell’altro, il capo dei miliziani palestinesi, il mujahidin che con la sua logica stringente e le sue domande razionali offre le pagine migliori del romanzo, quelle dalle quali si leva la tematica forte della dignità umana. “Non c’è cataclisma peggiore dell’umiliazione”.

    Impossibile comprendere che cosa pensi un essere umano nel momento in cui decide di diventare un arma di distruzione, uno strumento di morte per altri esseri la cui unica colpa è quella di appartenere al lato sbagliato del muro, ma aprendo gli occhi è possibile capire in che modo la ragione si sia addormentata generando mostri.
    “Come morire dopo aver vissuto disperato, cieco e nudo?” chiede il comandante dei miliziani. “Ci sono due estremi nella follia degli uomini. L’istante in cui si prende coscienza della propria impotenza e quello in cui si prende coscienza della vulnerabilità degli altri. Si tratta di accettare la propria follia o di subirla”.
    Stupisce non poco, dopo tanto spalancarsi di occhi, che in Amin Jaafari possa sopravvivere un rigurgito di egotismo tale da paventare una passata relazione extraconiugale della moglie e da sentirsi salvo (sic) quando il sospetto viene fugato. Questo tratto di possessività e di individualismo, tanto funzionale al coinvolgimento iniziale del lettore, forse a questo punto suona inopportuno.
    Se lo scopo era quello di rinsaldare l’identificazione con il personaggio sottolineandone la fragilità umana, il suo profondo convincimento che nessuna causa dovrebbe valere la vita di un uomo bastava già ad ottenere lo stesso risultato.

    Tuttavia, se siamo concordi con Amin Jaafari nel non riconoscersi in chi uccide, non possiamo ignorare il profondo valore delle parole di suo nipote Adel, fedele alla Causa: “ Come accettare di restare ciechi per essere felici, come voltare le spalle a sé stessi senza trovarsi di fronte alla propria negazione?”
    Amin ha aperto gli occhi, il lettore con lui. Ma non abbastanza. Khadra pretende di più e l’intento era già insito nel titolo originale, L’attentat, vanificato poi da una ingiustificabile traduzione italiana che suggerisce tematiche dalle quali il libro è invece assolutamente esente.
    L’ultima, energica stropicciata d’occhi la riserva nel finale, quando si è convinti di aver già visto molto. Khadra, invece, suggerisce di guardare meglio ancora e valutare quanta differenza ci sia fra l’attentato di un kamikaze palestinese al quale disperazione, umiliazione, miseria fisica e sociale hanno tolto il senso della dignità e del valore della vita, sua e degli altri, e l’attentato di un raid aereo dell’esercito israeliano che con un drone spara missili sui civili (e non parliamo solo di finzione letteraria, se pensiamo alla colonna scortata dalle Nazioni Unite, in fuga dal sud del Libano lo scorso agosto).
    Il compito di uno scrittore non è quello di additare colpevoli, o indicare soluzioni, bensì quello di far vedere “ciò che sta dietro” e far leva sulle coscienze. Una funzione alla quale Khadra assolve perfettamente.

    Luciana Viarengo

  • admin scrive:

    “L’attentatrice” (commento di V.G)


    Sono ancora sotto shock. Ho bisogno di dire qualcosa ma non mi vengono le parole.E’ già stato detto tutto dall’autore come meglio non si sarebbe potuto di quel vivere perennemente sospesi sul filo, nel precario equilibrio di chi, nato tra Israele e Palestina, più di altri trascorre ogni istante della propria vita col fiato della morte sul collo. Se non riuscivamo ad immaginarcelo questo libro ci ha aiutati…
    Ci permette anche di comprendere tutta una serie di questioni sulle quali normalmente non ci soffermiamo a riflettere perchè non ci riguardano o appartengono al nostro passato.

    Cosa significa non avere una Patria, una terra d’ abitare e dire propria, che ci identifica e ci legittimizza, ed avere invece solo un credo religioso in cui potersi riconoscere per affermare il diritto alla vita?
    Che altro resta ad un popolo la cui esistenza è quotidianamente spiata da droni che svolazzano in cieli spaventosamente azzurri e tersi, imprigionata da muri di confine che si spostano sempre un pò più in là, a relegare uomini e cose in spazi di volta in volta più angusti ed inospitali?
    Come ci si può difendere da una persistente volontà di rapina quando non si possiede altro che la propria pelle e qualche kalasnicov?
    Che senso ha cercare di salvare vite umane quando, appena girato l’angolo, un kamicaze vanifica ogni barlume di umanità facendosi saltare in aria e portando con sè decine di anime e corpi più o meno innocenti?

    Il dottor Amin viveva al di là di tutto questo prima che gli eventi e la fatalità aprissero i suoi occhi.
    Salito a fatica sul carro dei più forti, incarnando i sogni del padre che lo voleva medico e lottando contro l’umiliazione  inflittagli dai  suoi compagni d’università istraeliti, lui, palestinese povero e musulmano, aveva guadagnato il rispetto di sè e del mondo con le sue indiscutibili capacità professionali. Facendo proprie le ambizioni di quelli del suo stesso status sociale li aveva superati in benessere e felicità, attirandosi da un lato le invidie dei colleghi e dall’altro l’amicizia e la riconoscenza di coloro che aveva ricucito con le sue mani d’oro.
    Ma un giorno il castello crolla. Affetti e sicurezze vanno in frantumi e Amin è costretto a rivedere la sua vita, percorrendola a ritroso, verso quelle radici da cui si era allontanato tanti anni prima, per cercare di capire e farsi una ragione del tradimento subito.
    E’ allora che scopre un mondo parallelo che certamente non ignorava del tutto, ma dal quale si teneva ben lontano per comodità e convinzione finchè non impattò con la sua stessa esistenza con la violenza di un treno che deraglia.  Amin rasenta la pazzia uscendo dai binari ordinati della sua  edulcorata quotidianità.
    All’improvviso si trova catapultato in una realtà impalpabile perchè piena di segreti, ma tragicamente oscura, dolorosa e pesante come un macigno, fatta di sospetti, persecuzioni, odii reciproci viscerali, esasperati dall’ottundimento di facili indottrinamenti che trasformano il suicidio in atto eroico.
    Amin è alla deriva di se stesso. Non si capacita, lui che ha scelto di salvare vite umane, di come la mancanza di speranza possa  riscattarsi attraverso quei gesti estremi che la sua gente considera onorevoli.
    Eppure a mano a mano che la sua ricerca di senso e spiegazioni logiche procede, conducendolo tra le macerie fisiche e spirituali di quei mondi massacrati, dove i bambini anzichè giocare ed andare a scuola tirano ai carrarmati con le fionde, Amin è costretto a mettere in discussione le sue convinzioni.
    Comprende che a quei ragazzi la vita non offre neppure la possibilità di sognare come è stato per lui.
    Se suo padre inseguì tutta la vita il desiderio di diventare un pittore affermato, pur non riuscendovi e gli cucì addosso  ambizioni e speranze, i padri di costoro, caso mai fossero ancora vivi, possono cucire sulla pelle dei loro figli solo una divisa e un mitra di traverso.
    Tra orrore e sgomento Amin torna alla sua gente e ai suoi consanguinei, scoprendo verità agghiaccianti per lui inimmaginabili, ma ritrovando anche quel calore e quella solidarietà che, come fuochi sotto la cenere, non si spensero mai.

    Quando si perde tutto torniamo sempre all’inizio della nostra storia, là dove è cominciata la nostra avventura nel mondo. Per non impazzire, anche da adulti, torniamo a desiderare di ricongiungerci con quelle figure a cui ci siamo aggrappati da piccoli e che forse possono raccontarci ancora qualcosa di come eravamo e del perchè siamo diventati ciò che siamo.

    Anche Amin, tornato ai luoghi ed alle persone significative del suo passato, pare trovare un pò di serenità e recuperare un qualche senso dell’esistere. Figure e parole antiche riescono ancora a dispensare saggezza.
    Ma il male è più forte del bene e raggiunge anche l’ultimo approdo. Non c’è scampo. Nulla si salva . La spirale dell’odio è come un meccanismo che una volta innescato procede per suo conto, inarrestabile.
    Non c’è altro da fare che distruggere ed annientare, una volta l’uno una volta l’altro, una volta gli israeliani una volta i palestinesi…Gli uni avanzano, occupano territori ed innalzano muri, gli altri, non disponendo di un esercito forte ed organizzato, non possono che ingaggiare una guerra di resistenza. E’ questo il loro modo di combattere e, quando si combatte,  si uccide chi capita e si è pronti a morire. Non tutti possono permettersi il lusso di una guerra “chirurgica”.
    Non potendo scegliere come vivere, si danno il diritto di determinare almeno la propria morte..

    Forse un altro popolo si sarebbe arreso, avrebbe accettato di sottomettersi, si sarebbe “integrato”, oppure entrambi i contendenti avrebbero cercato una mediazione…La storia è piena di occupazioni e conquiste ed i libri ci parlano di sincretismi, convivenze tra diversità pacifiche e reciprocamente tolleranti. Tali pare che fossero le caratteristiche   dell’impero romano o la modalità di espansione degli arabi nel Mediterraneo…Perchè qui dunque non è possibile fare altrettanto?

    Perchè qui la religione diventa il pretesto di tanta violenza e tanto martirio?
    Quanto orgoglio e senso di appartenenza ad una sorta di Patria spirituale c’è nell’Islam? E’ cosa recente, come appare, oppure si tratta di una conflittualità remota?
    Quanto sangue dovrà ancora scorrere su questa terra dove lo spazio vitale si restringe ogni giorno un pò di più?
    C’è una qualche vaga possibilità che verrà il tempo in cui le ragioni della pace e dell’armonia prevarranno su quelle dell’odio, così come un prato costellato di fiori di specie diverse reca in sè il fascino della molteplicità?
    Oppure è proprio delle cose dell’esistere competere per sopravvivere nello stesso modo in cui, tra quei fiori variegati, prevarranno e si diffonderanno solo i più forti e tenaci, o quelli che troveranno le condizioni di vita per loro migliori ?

    Probabilmente non riflettiamo mai abbastanza sul fatto per nulla scontato che, pur tra mille difficoltà, tensioni e violenze quotidiane, abbiamo la fortuna di vivere in pace da settant’anni. Una pace nata da indicibili atrocità e forse mantenutasi proprio per questo. Lo spero.
    Spero cioè che quello che i nostri vecchi hanno patito abbia fatto della violenza e della guerra un tabù così potente da liberarcene per l’eternità.
    Però, purtroppo, non ne sono affatto convinta, perchè vedo che coloro che ci governano e che a loro volta si lasciano felicemente governare dalle potenze economiche non fanno nulla per tenere sotto controllo quelle ingiustizie ed empietà su cui s’innestano i motivi dell’odio e della conflittualità.
    Temo fortemente che un crescendo di disordini, atti violenti ed esasperati,  porteranno questo nostro bel paese sull’orlo di una guerra civile.

    Cosa possiamo fare noi, piccoli esseri martoriati e vilipesi dai grandi, per indurre questi ultimi ad un ravvedimento morale tale da evitare il peggio?
    Non cercano forse i vari kamicaze senza bombe del nostro mondo di scuotere le coscienze di chi determina, con tanta misconosciuta malvagità, le sorti infelici di tanti italiani?

    Forse quando gettiamo il nostro sguardo di disapprovazione sugli innumerevoli conflitti che insanguinano terre lontane e vicine dovremmo accorgerci della pagliuzza nei nostri occhi e liberarcene.

    Perchè uno Stato che rinnega la guerra nella sua stessa Costituzione sente la necessità di gonfiare i propri arsenali militari, e lo fa anche ora che molti dei suoi sono alla fame?
    Come può non essere tutto ciò il preludio di qualcosa di terribile?

    Ma stavamo parlando d’ Israele…

    Non c’è qualcosa di misterioso e d’indecifrabile nel fatto che tutto questo odio imperversi proprio là dove duemila anni fa fu crudelmente crocefisso un uomo che parlava d’amore? E che i discendenti di coloro  che decretarono quella morte, dispersi per secoli in ogni dove, a loro volta perseguitati e quasi sterminati e poi tornati sulle terre originarie rivendicandone la piena proprietà, a discapito di quanti nel frattempo le avevano abitate e vissute, oggi si trovino di nuovo coinvolti nell’aggressione dei propri conterranei?

    Pare che ovunque vadano gli ebrei non possano fare a meno di farsi notare, nel bene e nel male.
    C’è qualcosa nel destino di questo popolo che ne rinforza le convinzioni religiose di popolo eletto, o forse è vero il contrario: il ritenersi prescelti da Dio dà ad essi una marcia in più.
    Essi sono particolarmente intelligenti e colti, capaci di fare denaro e costruire benessere ed innovazioni, temuti e spesso ghettizzati e discriminati fino a diventare oggetto di sterminio ed ora pervicacemente convinti che lo Stato d’Israele sia troppo piccolo.
    Il cerchio si chiude: dalla terra promessa alla  diaspora, dalla diaspora  all’olocausto e poi di nuovo alla terra promessa.
    Sembra esserci un senso esoterico nel destino di questo popolo a leggerne le vicende secondo questa specie di schema che si riempe di simboli e significati, ed in cui bene e male s’inseguono e si alternano con la forza della necessità.
    E’ grottesco e paradossale che a perseguitarli sia stato l’occidente cristiano incarnato dal nazional-socialimo, che i loro “salvatori” (Russia ed America in prima linea), pianificandone il “rientro” in Africa  determinassero anche l’inizio di un’epoca di conflitti interminabili, facendo del Mediterraneo, culla di civiltà e madre delle tre grandi religioni monoteiste, un’area sempre calda e sul punto di esplodere ed allo stesso tempo zona strategica di primaria importanza per le questioni internazionali.
    Qui affondano radici comuni spesso negate e misconosciute, frammentate in correnti e divisioni di comodo foriere di scontri e scaramucce che giovano solo a chi le manovra e su cui spesso s’innesta l’ingerenza delle potenze economiche più grandi, con interessi cammuffati da accordi diplomatici e tavoli  della pace.
    Ma le tregue vengono puntualmente rotte perchè i confini e le regole che vengono disegnate di volta in volta non corrispondono mai ai reali bisogni delle popolazioni o forse c’è qualcosa nella loro natura che le rende perennemente litigiose, innaffidabili o incapaci di mediare.
    In realtà il mondo è ovunque attraversato da conflitti, sopprusi e guerre di religione, con stati divisi e contesi, bottini spartiti, esodi di massa, campi profughi, osservatori internazionali e caschi blu…, eppure qui c’è qualcosa che ci sconcerta e ci sorprende ancor di più ed è il radicalismo ad oltranza dello scontro, uno scontro tra fratelli di sangue, divenuti totalmente estranei gli uni agli altri e senza volontà di conciliazione.
    Ma forse si tratta di un odio antico che la nascita dello stato d’Israele ha solo accentuato e non solo per il possesso dei territori. Magari in quella volontà di espansione continua ad esserci l’idea di essere il popolo eletto che più d’ogni altro si merita l’amore del Padre, così come Caino lo contendeva ad Abele.
    Ed allora è la presunzione di ritenersi nel giusto il peccato antico, originale, che impedisce il processo di pace. E’ quella visione del mondo così unilaterale che rende il problema insolubile nello stesso momento in cui se ne afferma l’ineluttabilità.

    Dunque la storia non insegna nulla?
    Neppure questo popolo tanto intelligente è capace di riconoscere i propri errori, come l’arma a doppio taglio della fede, quando da salvifica diventa arrogante e pregiudizievole?

    Per non perpetuare la conflittualità occorre fare lo sforzo di uscire dalle suggestioni metafisiche della fede che ne legittimizza i presupposti, perchè la vera essenza dell’uomo è quella che si colloca al di là del pregiudizio. Niente come le convinzioni religiose e le teorie sul mondo hanno diviso gli uomini.
    In nome della fede abili manipolatori, trasformando le idee in ideologie, hanno strumentalizzato popoli ignari e creduloni per raggiungere i loro scopi riassumibili in una sola parola: potere.
    Ma oggi, tra le nuove generazioni, sono molti coloro che, comprendendo i meccanismi di questa coercizione occulta, cercano la via del dialogo.
    Non è raro trovare luoghi e situazioni in cui ebrei e palestinesi, cattolici e musulmani, condividono spazi e modalità pacifiche d’esistenza, sostituendo all’esasperazione delle differenze nelle posizioni fideistiche il desiderio di conciliazione, una conciliazione che non può sussistere finchè non si guarda l’altro con rispetto e senso di equanimità.
    Ciò dimostra inequivocabilmente che la pace non è utopistica, anche se tutto sembra remare contro, se i soliti guerrafondai fanno di tutto per attizzare il fuoco dell’odio essendo molto forti gli interessi economici in gioco.
    Forse pecco d’ingenuità ma mi piace credere che un giorno gli uomini impareranno a vivere in pace. Voglio credere nell’essere umano e nella sua capacità di rigenerazione, perchè cosa sarebbe la vita senza la speranza e la volontà di progredire verso l’armonia?
    Dobbiamo tendere al bene se vogliamo che il bene tenda verso di noi.

    Ma come possiamo far sì che questo accada se ancora una volta non sappiamo superare le ferite del passato?

    Forse per contrastare il  “negazionismo” da un pò di tempo a questa parte la società civile e le istituzioni parlano molto di MEMORIA.
    “Mai più…, Per non dimenticare…,Il giorno della memoria…” sono slogans ed eventi che cercano di  riportare l’attenzione su fatti  così terribili da sembrare impossibili.
    E’ certamente giusto non rimuovere dalla coscienza l’orrore di cui l’uomo è capace e metterne a conoscenza le nuove generazioni, affinchè esse vigilino costantemente sulle derive più allucinanti del potere e della discriminazione, tuttavia mi chiedo anche se questo rinnovamento del dolore, attraverso il ricordo e le varie celebrazioni ad esso connesse, non perpetui anche l’odio e le sue ragioni, e magari anche un sordo desiderio di vendetta…
    Forse ciò è anche quello che temono coloro che, su posizioni opposte, non esitano a rispolverare scritte, slogans ed atti intimidatori di vecchia data (vedi le teste di maiale….), in un interminabile gioco delle parti  e risentimenti che continuano a covare in sordina, proprio perchè nessuno ha intenzione di passare oltre…
    Al semplice cittadino a cui il pazzo di turno uccide il figlio o la moglie, a soli pochi giorni dalla sepoltura il cronista televisivo ha la sfrontatezza di chiedere: “Perdona…?”
    Perchè dunque non si fa altrettanto con i sopravissuti dell’olocausto dopo ormai settant’anni  da quei tristi fatti?

    Perchè non si cerca di dimenticare, perchè si continua a vivere nel ricordo ossessivo del male subito? Forse per quell’oscuro senso di colpa che tormenta i sopravissuti?

    Ma così facendo quelle ferite continueranno a sanguinare…!
    Non fanno in tempo a cicatrizzare che di nuovo il DOVERE DI RICORDARE ne farà saltare i punti di sutura, e sgorgheranno ancora lacrime, inconfessabili desideri di vendetta e di rivincita, mille pretestuose giustificazioni per non tollerare, per difendersi anche dalle ombre, per sospettare sempre e comunque di chiunque e poter giustificare arsenali ed eserciti…
    E’ vero, l’uomo può essere malvagio oltre ogni ragionevole misura, anche solo per il piacere di fare il male, ma la malvagità non si genera da sè. Essa viene alimentata dall’esasperazione della paura che diventa ossessione paranoica.
    Qualcosa ha scatenato il male, ma il meccanismo automatico e reattivo della vendetta impedisce di progredire, di andare oltre, di disegnare altre storie.
    Siamo ancora alla legge biblica del taglione: “occhio per occhio, dente per dente”. Nulla di nuovo all’orizzonte.
    Ecco ciò che non s’impara: LA VIOLENZA GENERA VIOLENZA.
    Ma come le perversioni del singolo possono spesso essere curate, sciogliendo traumi e nodi del passato, dall’abile psicoterapeuta, così anche le sofferenze patologiche di una comunità o di una collettività possono trovare una soluzione. Ne sono profondamente convinta, purchè gli interessati desiderino veramente interrompere i meccanismi di quelle reazioni a catena e non semplicemente tenerle a bada imparando a conviverci.
    Se si possono migliorare i rapporti umani  all’interno di una famiglia molto conflittuale, imparando a lasciar andare i torti subiti e dando a chi ci ha offeso la possibilità di capire e rimediare, altrettanto può essere fatto nelle grandi realtà umane.
    Non a caso si parla di “educare alla pace” e l’umanità è solo una famiglia molto grande dove i “genitori”, quando si amano ed amano i propri figli, hanno a cuore la loro felicità  e dunque si preoccupano d’insegnare comportamenti corretti attraverso il loro esempio.
    Onestà, equanimità, rispetto e consapevolezza sono presupposti imprescindibili di ogni processo di pacificazione.
    E forse lo è anche il SOGNO, cioè la capacità propria dell’uomo d’immaginare non solo il male, ma anche il bene.

    Così fa Amin, alla fine del viaggio, quando intravede il Paradiso, un paradiso che nonostante tutto esiste da qualche parte nel cuore dell’uomo ma che rimane nascosto a chi non lo cerca.

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