Incontro 10 giugno 2014
Incontro del gruppo di lettura presso la Biblioteca Comunale ore 21.00, P.zza Garibaldi 3, primo piano.
La bellezza delle cose fragili di Taiye Selasi
Kweku Sai è morto all'alba, davanti al mare della sua casa in Ghana. Quella casa l'aveva disegnata lui stesso su un tovagliolino di carta, tanti anni prima: un rapido schizzo, poco più che un appunto, come quando si annota un sogno prima che svanisca. Il suo sogno era avere accanto a sé, ognuno in una stanza, i quattro figli e la moglie Fola. Una casa che fosse contenuta in una casa più grande – il Ghana, da cui era fuggito giovanissimo – e che, a sua volta, contenesse una casa più piccola, la sua famiglia. Ma quella mattina Kweku è lontano dai suoi figli e da Fola. Perché il chirurgo più geniale di Boston, il ragazzo prodigio che da un villaggio africano era riuscito a scalare le più importanti università statunitensi, il padre premuroso e venerato, il marito fedele e innamorato, oggi muore lontano dalla sua famiglia? Lontano da Olu, il figlio maggiore, che ha seguito le orme del padre per vivere la vita che il genitore avrebbe dovuto vivere. Lontano dai gemelli, Taiwo e Kehinde, la cui miracolosa bellezza non riesce a nascondere le loro ferite. Lontano da Sadie, dalla sua inquietudine, dal suo sentimento di costante inadeguatezza. E lontano da Fola, la sua Fola. Ma le cose che sembrano più fragili, come i sogni, come certe famiglie, a volte sono quelle che si rivelano più resistenti, quelle che si scoprono più forti della Storia (delle sue guerre, delle sue ingiustizie) e del Tempo.
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Non accade molto sovente che settimane prima dell'uscita di un romanzo d'esordio i giornali già parlino così tanto di un libro, del suo autore, della sua vita. E quando a farlo è un magazine popolare come Vanity Fair, la faccenda assume aspetti interessanti e sospetti.
È dunque con una certa dose di diffidenza dovuta al battage che lo precede, che ho preso in mano questo libro – pur sempre amato da Rushdie e dal New York Times – attendendomi qualcosa di simile a una delusione.
E invece sin dalle prime pagine questo romanzo davvero ti coinvolge. Sin dalla descrizione acuta e leggera di un marito che cerca di non svegliare sua moglie scendendo dal letto, anche se lei "dorme come una bambina" o "come un cocoyam, una cosa priva di sensi". Sin dal racconto di una banale fine per infarto che si colora inaspettatamente nel panorama ghanese che la circonda. Sin da quel piccolo particolare, le pantofole smarrite, lasciate da parte, ricercate in tutto il romanzo. Sin da quella considerazione sull'inevitabilità della morte di un neonato "il genere di cose di cui ci si preoccupa tanto in America e per nulla invece in posti come Riga o Accra". Perché così è la vita. Così è ancora oggi in molti paesi del mondo che non ricordiamo mai; così è stata fino a pochi anni fa anche qui, ma dei decenni trascorsi tendiamo a non ricordarci mai.
È strana la condivisione, il comune sentire che scaturisce come un rivolo d'acqua in queste pagine. Si parla di Ghana, ma è come se si parlasse della Sila, della campagna emiliana o delle valli alpine. Ritroviamo qui l'universalità dei sentimenti e delle esperienze umane che generalmente sono patrimonio dei poeti. O semplicemente delle nuove generazioni di scrittori figli di un mondo "maggiore": più aperto, più disponibile, più multietnico.
Taiye Selasi ha coniato il termine afropolitan proprio per descrivere l'universo dei figli di africani immigrati degli anni Sessanta e Settanta che hanno raggiunto il traguardo dell'assoluta integrazione culturale, politica, sociale, economica nell'Occidente.
Il suo libro rispecchia questa esperienza personale e comune, descrivendo una famiglia sparpagliata nel mondo, narrandone le sue ragioni e le radici, i legami, le speranze, le delusioni e le sofferenze ma in modo molto contemporaneo, diretto, senza quell'eccesso di sentimentalismo che accompagna troppo spesso questo tipo di storie.
Avevo avuto qualche perplessità nell'affrontare un romanzo scritto tra New York Parigi e Roma, da un'autrice che pranza da Roscioli, vive al Vicolo delle Orsoline e a Trastevere, che ha un suo cocktail dedicato (una miscela di vodka e zenzero) allo Stravinskij Bar dell'Hotel de Russie, è stata selezionata tra i migliori venti scrittori sotto i quarant'anni dalla snobbissima rivista Granta e frequenta una certa élite internazionale radical-chic. Come può raccontare la verità o almeno una storia credibile? Incredibile, ma vero: può.
A cura di Wuz.it