INCONTRO CON L’AUTORE 18 novembre 2014
Monte Porzio – Libri in testa – INCONTRO CON L'AUTORE
Dopo il successo del progetto "libri in testa", che ha portato i libri in luoghi alternativi, come in una parrucchieria, si organizza un incontro con un autore in collaborazione con la Biblioteca Comunale di Monte Porzio e il Gruppo di Lettura "le parole".
Questo incontro si svolgerà presso la Parrucchieria Mariella, la stessa del progetto "libri in testa". Sarà un momento molto interessante sia per parlare del libro sia per confrontarsi su un progetto che ha destato molto interesse e che è stato proposto per la prima volta nell'ambito della Valle del Cesano.
Il libro di cui si parlerà è "Il dio denaro", con la presenza di uno degli autori Gianluca De Gennaro. L'argo mento è sicuramente uno di quelli che fa molto discutere perchè il concetto "idolatria del denaro" è stato citato, qualche settimana fa, da Papa Francesco durante l'Angelus domenicale.
Il libro è una intervista su questo argomento ad Arturo Paoli, che purtroppo non potrà essere presente per l'età molto avanzata di 102 anni. In questo libro/intervista si parla del denaro, una entità astratta che influenza in modo preminente le scelte degli individui e ancora, più grave, le scelte della società contemporanea senza considerare l'importanza dell'"Essere Uomo". Il libro cercherà di smascherare il sottile inganno dell'idolatria del denaro.
Le parole di Arturo Paoli sono un esorcismo indirizzato al demone denaro che si è impossessato dei nostri corpi, delle nostre menti e della nostra anima. Solo che queste parole non vengono urlate ma semplicemente dette, con tenerezza, di modo che il diavolo denaro, oltre a essere cacciato, si sente anche umiliato per non essere stato affrontato con la dovuta violenza.
Due parole anche su Gianluca De Gennaro che oltre ad essere uno scrittore è anche componente di Civiltà Etica una Associazione culturale/sociale che ha lo scopo di fornire una visione di economia alternativa. Questa visione diversa di economia ha permesso la nascita della Bottega del Commercio Equo e Solidale di Gubbio e la manifestazione Altro Cioccolato con lo scopo di presentare al pubblico delle realtà socio-economiche che stanno sviluppando progetti alternativi di produzione. In questi ultimi anni ha lavorato soprattutto sugli aspetti legati all'interiorità, intesa in senso non religioso, ma laico, attività che si è concretizzata nell'organizzazione di riti di riflessione filosofica e sociale.
L'incontro si svolgerà martedì 18 novembre 2014 presso la Parrucchieria Mariella di Castelvecchio di Monte Porzio in via D.U. Secchiaroli alle ore 17.00
IL DIO DENARO di GIANLUCA DE GENNARO
(Valeria Gramolini)
Prima parte: l’incontro con l’autore
Non ho ancora letto il libro proposto da “Monteporzio Cultura”, ma ho ascoltato con attenzione l’autore che ne ha esposto con simpatia il contenuto. M’è parso qualcosa di simile alla buona novella annunciata da certi fraticelli d’altri tempi: parole semplici come parabole per persone semplici, a cui il messaggio deve giungere forte e chiaro. Ed il messaggio è quello evangelico, che tutti coloro che sono di formazione cattolica conoscono, anche se non praticanti.
Attraverso un’intervista al sacerdote missionario Arturo Paoli, che pare abbia conosciuto l’attuale Papa quando era in Argentina, l’autore, sicuramente convinto e determinato a convincere, sposa appieno l’idea di un cristianesimo radicale.
Totalmente fiducioso nella divina provvidenza e raccontandoci un pò della sua vita, ci ha esposto il progetto a cui l’ha condotto la sua scelta di vivere “oltre il denaro”, considerato un impedimento alla realizzazione spirituale. Rivolgendosi agli astanti, tra cui il Sindaco, ha invitato a prendere in considerazione l’eventualità di creare luoghi d’accoglienza per persone disagiate o senza tetto come semplice atto d’amore, senza fermarsi a considerare se esista o meno la concreta possibilità di farcela senza i mezzi economici che normalmente s’invocano quando si pensa di aiutare il prossimo.
Come Francesco d’Assisi e sull’onda emotiva e trascinante del nuovo volto della Chiesa di Bergoglio, De Gennaro s’è profuso in parole di speranza. Non negando una certa “follia” in queste posizioni estreme ne ha tuttavia sottolineato la forza dirompente , la contagiosità positiva, la vitalità insita in questo risveglio delle coscienze.
A dargli manforte l’amico che l’accompagnava, il quale ha proposto il suo spettacolo su San. Francesco. Quindi è seguita una breve discussione.
Si può vivere senza denaro?
Può un cristiano, per quanto convinto, far proprio nella sua totalità il messaggio evangelico e l’esempio francescano quando la Chiesa stessa, pur non essendo tra tutte le istituzioni la peggiore, ha il suo bel giro di miliardi? Non sarebbe sufficiente guadagnarlo onestamente, quel denaro, e spenderlo eticamente e saggiamente?
Potrebbe forse la Chiesa aiutare chi versa in difficoltà, con le sue opere umanitarie, anche se discutibili o sospette, se non disponesse di quanto ha accumulato in secoli di storia e di potere temporale?
Non è proprio grazie alla sua potenza materiale, oltre che spirituale, che viene ascoltata dai governi internazionali? E non è forse vero che l’arte, la bellezza e la ricchezza delle sue cattedrali, i dipinti in esse conservati, la preziosità degli arredi sacri e tutto il suo grande patrimonio culturale costituiscono un forte richiamo per i visitatori di tutto il mondo, i quali contribuiscono in tal modo a creare lavoro e sostentamento non solo agli ecclesiastici ma anche a tutto l’indotto di questa importante impresa economica?
Certo, il Vangelo è un’altra cosa, ed ogni vero credente può praticarlo, se vuole. Anche il prete del paesino può scegliere se destinare le offerte domenicali o quelle dei funerali ad opere di beneficienza oppure al restauro di dipinti o fonti battesimali…Immagino che Don Gallo e Padre Zanottelli non avrebbero dubbi al riguardo! Ognuno ha i suoi convincimenti e le sue strategie.
Ora vorrei provare a fare qualche riflessione sull’argomento in questione. Non so se il ragionarci sopra mi porterà a qualche conclusione, ma vale la pena provarci, almeno per me.
Parto dal presupposto che c’è un’umanità sofferente. Ad alcuni manca l’indispensabile, altri, pur avendo il necessario, vorrebbero qualcosa in più, altri molto molto di più.
L’ingiusta distribuzione della ricchezza è palese. Probabilmente molti non hanno nulla perchè altri hanno troppo, anche se tra questi ultimi non tutti possono dirsi responsabili della fame nel mondo…
Il Vangelo invita i ricchi a donare ai poveri perchè, così facendo, avranno la vita eterna; i poveri invece, proprio in quanto tali, l’hanno già meritata e possono dirsi beati fin da ora, in quanto il cielo sicuramente aprirà ad essi le sue porte.
Ma, mi chiedo: ad un povero “Cristo” che non crede a questa “verità”consolatoria e che ha tentato di tutto per uscire dalla miseria che altro resta se non cercare la soluzione definitiva alla propria sofferenza?
Potrebbe forse prendere la discutibile via della criminalità, oppure provare a domandarsi, così, tanto per esplorare un altro punto di vista, se veramente tutto ciò che sente mancargli è poi così indispensabile o se lo crede tale solo perchè così fan tutti. Può darsi che, come affermano i sostenitori della sobrietà e della decrescita felice, con un’attenta revisione del modo di pensare e di sentire, si giunga alla conclusione che, in effetti, non serve molto per vivere dignitosamente ed anzi può essere stimolante la ricerca di un benessere diverso, più originale e personale.
Di sicuro al ricco non dispiace se il povero pacifica la sua collera in tal modo. Meno disordini in piazza, magari anche meno furti…Ma qualcuno ci dice che i consumi non si possono abbassare. Il consumo crea lavoro e denaro che unge la ruota del mercato. Certamente, oltre all’operaio che vuole giustamente la sua retribuzione, anche l’industriale, il quale è ricco per definizione, desidera il suo bel tornaconto, nè si accontenta di guadagnare meno di quanto gli accadeva ai bei tempi del boom economico…
La necessità ha riportato in auge alcuni modi per affrontare la povertà, come la solidarietà, lo scambio, la condivisione. La miseria si affronta meglio insieme agli altri, in una comunità in cui ci si aiuta vicendevolmente.
Chi non ce la fa a percorrere questo sentiero, quando la sofferenza è tale che anche l’amico di ieri diventa oggetto del nostro rancore, tenta la via della protesta: si formano prima cortei pacifici, poi agguerriti, infine la violenza dilaga, disperata…, come quella delle primavere africane, belle, potenti, necessarie ma infelicemente concluse.
Altri ancora scelgono la soluzione definitiva. In India, 216.000 contadini che coltivavano il cotone con il seme venduto dalla Monsanto, pianta trattata in modo tale che non fiorisse così da costringere i coltivatori a comprarlo sempre ed ancora dalla stessa multinazionale, impossibilitati per questo a restituire alle Banche il denaro avuto in prestito, si sono suicidati con il diserbante.
Soluzioni diverse per diversi gradi di povertà, di disperazione, di approccio mentale e culturale al problema del dolore.
C’è infine la via più eccellente: quella della comunità religiosa monastica, un modello di convivenza ormai “brevettato” e consolidato da secoli, perfettamente funzionante, almeno ad uno sguardo esterno. Cosa rende questa forma “associativa” così vincente, se così possiamo dire, vista la sua durata? Credo di poter individuare almeno quattro componenti fondamentali:
* beni in comunione
* regole condivise
* impegno personale ad attenervisi per il codice etico assunto attraverso la fede
* la presenza quotidiana e ricorrente di momenti di preghiera, sia nella forma di rito collettivo, sia in quella di tempo dedicato all’incontro personale con quella sorta di supervisore che è Dio, cosa questa non da poco, anzi fondamentale, direi.
E’ in questa ultima fase che si ha modo di meditare sui propri errori, di confessarli a se stessi, di ravvedersi e di prepararsi a condividerli con un fratello più esperto, un padre spirituale che sia più avanti sul cammino. Qui la divisione gerarchica dei ruoli e delle competenze non è basata sulla ricchezza posseduta, ma sulla competenza, sull’intelligenza, sulla preparazione dottrinale, in sostanza sulla cultura. Difficilmente sta in alto il più umile, il più semplice e modesto del gruppo. Probabilmente anche qui si premia un carisma basato spesso, più che sulla fede, sulla capacità oratoria e la seduzione intellettuale. Lo si evince dalla struttura stessa del monastero, dalla presenza di biblioteche importantissime, dagli studi sia umanistici che scientifici che sfociano in costanti pubblicazioni, dal contatto con il mondo esterno e dall’accoglienza di visitatori sempre più raffinati e colti, che nei monasteri vanno per scambiare idee sulla politica e sul costume, o per frequentare corsi d’erboristeria e raccogliere erbe medicinali nei secolari boschi che circondano queste piccole città ideali.
Di tutto ciò un fulgido esempio è la comunità monastica di Camaldoli, con le sue “filiali” diffuse non solo tra gli Appennini ma anche dalle nostre parti, come quella di Monte Giove e naturalmente di Fonte Avellana. Sono, questi, luoghi che non hanno mai conosciuto crisi economiche, ed anzi, come testimonia la storia della loro evoluzione nei secoli, non solo erano comunità ricche, e tali continuano ad essere, ma hanno anche contribuito allo sviluppo economico del nostro Paese nel tempo. Qui certamente il denaro non è estraneo, tuttavia, per quel che se ne sa, viene amministrato in modo intelligente e certamente più eticamente di quanto venga fatto in altri ambiti istituzionali.
E dunque si possono trovare modi per gestire poteri e denari in modo tale che vi sia un benessere diffuso. Come si è visto, in certe comunità ciò avviene. Esse rappresentano una specie di faro che illumina i naviganti nell’oscuro mare della vita, esempi di esistenze armoniche a cui guarda sempre più la società civile, per ritemprare, forse più che lo spirito, il corpo e la mente sovraffaticati dagli stili di vita imposti dall’era moderna. Qui si riversano gitanti domenicali, scolaresche chiassose, famigliole in vacanza, escursionisti amanti della natura, pensatori e filosofi…
Certo, non sono più i monasteri d’una volta, quando vi si recava per trovare pace e silenzio. Sembrano piuttosto degli alberghi ben tenuti, spalancati al mondo nel nuovo segno dell’accoglienza, e che dal mondo ricevono il sostentamento necessario per mantenersi e mantenere le mura secolari in cui pulsa un tenore di vita certamente non improntato alla povertà ed alla privazione.
Comunità, si è detto. Forme associative appena un pò più grandi della famiglia, come quelle tribali primitive, che ancora sopravvivono nel mondo, ai margini del progresso che ancora non le ha travolte del tutto. A vederne le immagini, attraverso i documentari televisivi, non si ha l’impressione della sofferenza. Donne che impastano “piadine” e bambini saltellanti e sorridenti, uomini nella boscaglia nudi e con le cerbottane, dal passo fiero ed energico, tonici anche senza andare in palestra…Se non indossano le maschere della felicità pare proprio che stiano bene così. Non manca nulla alla loro vita, forse perchè, non conoscendo la nostra, non si è acceso ancora in loro il desiderio del cambiamento.
Ma per noi è impensabile tornare a quella fase, anche se spesso, da adulti che siamo, ci piacerebbe tornar bambini…Allora abbiamo inventato dell’altro per sopravvivere o vivere meglio, varie forme di esistenza comunitaria, alcune di breve durata, come quelle hippies degli anni della contestazione, altre più solide, formatesi attorno a qualche figura religiosa fortemente carismatica, preti d’assalto dalla parte degli ultimi, come Nomadelphia, una vera e propria città “alternativa”sorta dopo i disastri della seconda guerra mondiale e non ancora “estinta”.
Ognuna di esse è nata per fronteggiare le difficoltà imposte dall’esistenza, attraverso il reciproco aiuto con il quale si è cercato di sopperire proprio alla mancanza di denaro. Disoccupazione, malgoverno, iniquità, lavori sottopagati, ignoranza, vissuti famigliari disastrosi…Le cause delle miserie umane sono infinite. Nessuno di costoro probabilmente ha mai pensato, come San Francesco, che la povertà fosse bella, ma forse, proprio a motivo di essa, ha cercato e trovato un pò di gioia nella fraternità. Nessuno di essi certamente ha mai sputato sul denaro, considerandolo non un male, bensì un bene a cui aspirare.
Il denaro è un problema per chi non ce l’ ha, per chi non ha nè pane nè denti, non per chi naviga nell’oro.
Berlusconi ha sempre il sorriso stampato in faccia; s’è adombrato solo durante il periodo dei suoi guai giudiziari ed ora è tornato a splendere, come il Re Sole.
Eppure quanto mi piacque, tanti anni fa, trovarmi davanti all’improvviso, per le strade di Roma, il volto sorridente d’un barbone. Aveva la barba lunga, le scarpe rotte , la giacca sporca e rattoppata, e portava sottobraccio un fagotto con la coperta in cui aveva trascorso la notte. Gli occhi erano socchiusi, il viso disteso e l’espressione beata. Accoglieva semplicemente il calore di quel sole inaspettato, e certamente ringraziava il cielo di tanta improvvisa felicità. Cosa che feci anch’io, perchè in quel momento imparai molte cose. Capii che possono esserci gioie interiori che nessun denaro può comprare.
Ma torniamo ai discorsi pseudo-razionali…
Al denaro, appunto, per quel niente che so di economia…
Indubbiammente ha origini molto antiche ed è diffuso ovunque. Viene usato universalmente quale mezzo di scambio per merci e servizi a cui economia e politica attribuiscono valori variabili a seconda dei luoghi, dei tempi e dei sistemi di governo.
Generalmente maggiore è l’abbondanza di un bene, minore e il suo valore monetario, tant’è vero che oggi, vista l’abbondanza di disoccupati, il lavoro, o meglio certi tipi di lavoro, non costano quasi nulla. C’è addirittura chi paga per averlo…
Il denaro è il risultato di una moltiplicazione di beni e servizi disponibili derivanti dallo sviluppo produttivo e dalla sua complessità, ma non necessariamente presenti al momento della contrattazione e dello scambio. Per certi versi ha valore simbolico, solo che, nel corso dei secoli, da bene rappresentativo di oggetti reali, è diventato esso stesso merce ed oggetto di scambio.
La sua accumulazione nelle casse private o pubbliche, in seguito ad un’accresciuta ricchezza, l’ha trasformato in un vero e proprio idolo, astratto quanto una divinità , almeno per una parte del suo aspetto. Dall’altra parte della medaglia infatti esso ha un impatto assai concreto e violento sulla vita di tante persone: interessi esorbitanti sui prestiti, mutui che scadono, svalutazioni…, per non citare poi tutto l’armamentario della moderna terminologia finanziaria, oscura ed intraducibile quanto la lingua di un altro pianeta e certamente non solo per me.
Tuttavia credo che il denaro non sarebbe perverso in sè se si limitasse ad essere un oggetto che ne rappresenta un altro; la sua malvagità consiste invece nel fatto che il suo valore non è stabilito concordemente da tutti, bensì solo da coloro che ne possiedono in abbondanza e che il più delle volte sono anche membri di qualche governo, o detengono una qualche forma di potere.
Benchè il denaro non faccia necessariamente la felicità, come dimostrano certe cronache relative alle vite dei v.i.p., sospese tra clinica psichiatrica e suicidio, non può non essere, almeno nel nostro immaginario, una meta assai desiderabile, quella cosa che, a possederla, ci permetterà di fare tutto quello che potrebbe renderci felici. E come appurarlo se non abbiamo mai niente?
Dunque procurarsi denaro diventa un imperativo assoluto, la molla propulsiva del nostro agire. Nè basta lavorare. Quand’anche un lavoro ce l’avessimo con quale serenità svolgeremmo il nostro compito sapendo che, appena due uffici più in là del nostro, c’è chi guadagna diecimila volte più di noi? Non abbiamo forse entrambi due occhi, due braccia e due gambe? Chi decide il valore monetario dell’innumerevole gamma di attività della nostra epoca? Quanto di arbitrario e soggettivo e ingiusto c’è in questa attribuzione di valore alle cose e alla vita stessa, che, tanto per fare un esempio, qui viene mantenuta a furia di accanimenti terapeutici mentre nel cuore dell’Africa dura finchè dura?
Più che chiedersi come uscire dall’idolatria del denaro dovremmo chiederci come difenderci dall’ingiustizia e come combatterla. La nostra religione, pur condannandola, non si pone il problema di sradicarla. “Date a Cesare quel che è di Cesare” recita, e. si sa, Cesare è ingiusto.
Il cristiano non deve concentrarsi sulla pagliuzza nell’occhio dell’altro, ma sulla trave nel suo, e ricordarsi che “é più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli”. Il Vangelo suggerisce l’idea che la vita vera non risiede nel possesso ma nell’amore. Invita l’ingiusto a ravvedersi, lo ammonisce, ma non lo obbliga con la forza a dare ciò che non vuole dare. D’altronde credo che debba essere proprio questo il compito della Chiesa: sollecitare il credente alla giustizia, alla generosità, al superamento dell’egoismo, ad un comportamento etico, facendo essa stessa, grazie al potere economico acquisito in tanti secoli ed una saggia amministrazione dei suoi beni, ciò che suggerisce.
Lo Stato laico invece non ha l’obbligo dell’amore, bensì ne ha un’altro parimenti importante: quello di essere giusto e di garantire la legalità (diamo qui per scontato che le sue leggi siano giuste, anche se sappiamo bene che la legge,di fatto, non è uguale per tutti)).
Uno Stato è giusto se lo sono i suoi rappresentanti, se i politici sono onesti, i funzionari non corrotti,
le cariche assegnate in base ai meriti ed alle competenze, non alle appartenenze o ai pietismi di parte. Uno Stato così è efficiente, le cose funzionano, non ci sono sprechi, l’amministrazione è saggia e non vengono a crearsi nè disagio sociale nè sacche di miseria. Probabilmente non ci sarebbe neppure bisogno di assistenza o beneficienza. La bontà non serve quando è garantita l’equità, non occorre alcun sacrificio quando i cittadini sono felici.
Come si giunge a ciò?
Curando la preparazione non solo professionale ma anche etica degli addetti ai lavori, con scuole che formino esseri pensanti e lungimiranti e non automi, ambiti e luoghi in cui elaborare idee e seminare l’urgenza e la volontà di un bene comune.
Ma come può uno Stato corrotto ed alla deriva come il nostro preoccuparsi della dirittura morale dei suoi rappresentanti?
Lo farà solo se sollecitato dall’esterno, dalle pressioni d’una società civile che sappia resistere alla dilagante sfiducia a cui ci costringono, penso volutamente, quanti ogni giorno abusano del proprio potere a discapito della povera gente. Essi vogliono sfinirci, come in una logorante guerra di trincea dove muoiono i fanti mentre si salvano gli ufficiali.
Ma non è forse dalla guerra, o meglio dalla sua fine, che sono nate le idee migliori? A quale sfacelo dovremo ancora arrivare per veder comparire persone in grado di fare della buona politica, che sappiano coniugare testa e cuore e che pongano la felicità di tutti al primo punto del proprio programma elettorale?
I sistemi corrotti non cambiano finchè c’è chi sopperisce alle ingiustizie con la generosità dei buoni, la quale spesso, dispiace dirlo, alimenta vittimismo e indolenza in coloro che ricevono. Feriti nella loro dignità e mortificati dalla propria inutilità essi finiscono per diventare ingombranti parassiti, spenti e tristi come i profughi nei campi d’accoglienza, i poveri in fila alla mensa della caritas, i rom ammassati nelle periferie urbane.
La carità è un palliativo che non può essere usato ad oltranza, nè si può ancora propagandare il mito della produttività quale panacea universale dei mali dei nostri tempi.
Serve innegabilmente un cambiamento di mete e di prospettive, progetti che abbiano per centro l’equità e la solidarietà e, soprattutto, una ricostruzione morale e spirituale dell’essere umano, fatta di pregnante consapevolezza e di fiducia nella possibilità di un suo rinnovamento interiore.
Per tornare coi piedi per terra, direi che si deve prestare molta attenzione alle tante nuove forme associative che stanno sorgendo un pò ovunque per fronteggiare la crisi, perchè possono rappresentare un interessante esempio di autogoverno. Se è il denaro la causa di molti mali si può cominciare a ridurne l’importanza sostituendolo con il baratto, lo scambio, la banca del tempo, o magari coniando monete alternative all’interno di piccole realtà locali con valori adeguati alle effettive situazioni di vita.Ci si può rieducare alla convivenza solidale, alla distruzione di forme di pensiero indotte ed alla costruzione di nuovi valori o filosofie di vita, possiamo disimparare l’individualismo ed imparare il collettivismo, oppure possiamo semplicemente accontentarci di un raggio di sole. Certamente prima o poi ne spunterà uno tra le nuvole anche per noi.
seconda parte: il testo
Gianluca De Gennaro intervista Arturo Paoli, missionario di lungo corso in America Latina, nonchè autore di numerosi libri sul modo e sul senso dell’essere cristiani (trovi la bibliografia nel libro).
Ne emerge una profonda riflessione sul significato della fede e dell’amore oggi, a 2000 anni da Cristo, in una società sempre più votata all’idolatria del denaro e del mercato, nel mondo dell’economia globalizzata.
Il suo punto di vista è quello maturato nei tanti anni trascorsi accanto ai poveri del Sud America, quindi in un certo senso fuori dal sistema imperante, nel quale, ahimè, vivono sprofondate da secoli anche le gerarchie ecclesiastiche e gli imponenti apparati del Vaticano, nonchè gran parte di quell’umanità che si professa cristiana e che, più o meno consapevolmente, si trova ad alimentare attraverso i suoi comportamenti quell’assetto economico e sociale mondiale che è causa di tanta sofferenza e che, idealmente, sostiene di voler eliminare.
Tale contraddizione – dichiara Paoli – è implicita nella stessa forma mentis del pensiero filosofico occidentale, in quella sua tendenza a costruire ideologie astratte senza partire dalla realtà concreta dell’uomo, dalla sua vera essenza. E dunque ci si è fatti portatori di progetti grandiosi, alcuni dei quali non sempre e non solo attribuibili alla volontà di arricchimento di pochi su molti, ma sorti anche da un sincero convincimento: che il mercato globale potesse liberare il mondo dalla povertà e dall’indigenza. Ideologia questa che si è rivelata fallimentare ed anzi foriera di ulteriore infelicità.
Anche tra gli stessi membri del Fondo Monetario Internazionale, nato con l’intento di favorire un’equa distribuzione della ricchezza, ci si accorge che, a conti fatti, la globalizzazione ha inasprito le differenze tra Nord e Sud del mondo, e che, purtroppo , per quanto animati da buone intenzioni, non si può che continuare quel gioco da cui è impensabile uscire.
Tutto ruota attorno al denaro: dalla politica dei grandi della terra ai comportamenti quotidiani dell’uomo della strada, il denaro permea ogni aspetto della nostra vita, del nostro sangue, come se fosse entrato nel nostro stesso D.N.A.. Dall’uomo sapiens sapiens all’homo economicus. Banche e finanza da un lato, acquisti compulsivi dall’altro. Siamo ciò che possediamo, siamo in quanto spendiamo ed anzi più cose acquistiamo più prende corpo la nostra identità.
Ma è un’identità aleatoria e fasulla – dice Paoli -. Lo sanno bene quei poveri che, al contrario, non possiedono niente. E’ qui che risiede la vera essenza dell’uomo, un uomo non stordito dall rumore, non ottenebrato dalle “tentazioni consumistiche” o dalla mitologia del produttivismo che dovrebbe creare benessere, ma vivo nel silenzio della sua estraneità, nei tempi vuoti della sua povertà, tempo che noi aborriamo per riempirlo di cose, di presenze e di attività che non ci fanno pensare.
Ci accorgeremmo altrimenti di quanto insensato sia il nostro vivere, quanto illusorie le nostre sicurezze, che diventano tali solo finchè le attribuiamo a quel denaro di cui, alla fine, diventiamo prigionieri.
Il fallimento dei nostri modelli di sviluppo ci costringe ad una revisione del pensiero filosofico occidentale, di quella visione antropologica dell’essere umano che sta alla base sia dell’ideologia capitalista sia di quella comunista e di cui anche la teologia è intrisa. Una civiltà non più sostenibile, tanto meno per chi ha il Dio cristiano nel cuore, a meno che anche questo Dio non sia solo un feticcio, un vitello d’oro che ossequiamo per abitudine, facendo della fede, più che un fatto privato, intimo, determinante per l’orientamento della nostra esistenza, una mera rappresentazione, espressa nelle forme e nei riti che interpretiamo durante le cerimonie religiose, mettendoci delle maschere che poi, nel quotidiano, abbandoniamo, per assumerne altre, quelle a cui c’invita la pubblicità, con i suoi sfavillanti stili di vita.
E’ proprio questo fare contraddittorio, per non dire ipocrita, o forse inconsapevole, che continua a creare sofferenza. In noi stessi, perchè ci abbruttisce e ci allontana da una vera ricerca di senso, e negli altri, perchè è proprio a causa di questo “ordine mondiale”, alimentato dai nostri desideri, che altri esseri soffrono e muoiono di guerre e miseria. Ma non ci si può abbandonare alla disperazione, anzi occorre nutrirci di speranza che, più che dal mondo cattolico – sostiene Paoli – proviene dai filosofi laici, i quali ci parlano di un rinnovamento possibile, di una rinascita del pensiero, a partire dalla morte di quello vecchio, non di razionalità, ma di saggezza (Levinas)
Un filosofo come Jullien va in Cina, in una miniera abbandonata, e da qui ci porta un soffio di speranza. Lo desume da un’altra cultura. L’essere umano non è una monade isolata, non è un individuo (quell’individuo da cui nasce proprio il nostro modello di sviluppo), ma un essere sociale, portatore di una precisa responsabilità verso il suo simile.
Più che di sentimento religioso è di etica che si deve parlare, di sguardi orizzontali, più che verticali verso un Dio astratto fuori di noi. E’ nell’altro che scorgiamo il vero volto di Dio, tanto più se diverso, incomprensibile. L’incontro che deriva dall’accoglienza è quanto di più positivo possa esserci nella nostra vita, perchè ci costringe a guardare dentro di noi, a cercare qualcosa che va oltre il consueto, mobilita la nostra intelligenza, la nostra capacità di conoscenza e di evoluzione.
Come potremmo esplorare noi stessi, accedere a ciò che giace nel profondo del nostro cuore e delle nostre possibilità se chiudessimo quella porta per spalancarla, al contrario, verso le insegne luccicanti del mercato?
Recuperiamo tempo per la relazione umana, tempo per un intimo colloquio con noi stessi, per comprendere attraverso la sofferenza che leggiamo nel volto del povero, dello sfruttato, il nostro errore, e cerchiamo di porvi rimedio.
Non è che questo l’amore: tenerezza, amicizia, compassione, misericordia. Non dire più “Oh, che bel telefonino…!”, ma neanche ” Oh, poverina…!”, bensì farsi portatori di una solidarietà vera, quella che conoscono i poveri, i quali, nulla avendo, nulla hanno da perdere.Una solidarietà non di facciata, ma concreta, basata – dice Paoli – sullo scioglimento del cuore di pietra in un cuore di carne, capace di assumere su di sè il dolore dell’altro, per liberarlo. Un pò come portare per qualche istante la sua croce.
E come non finire questa riflessione sul senso dell’essere cristiani oggi se non con la Regola di San Francesco, appropriatamente aggiunta dal De Gennaro in appendice al libro?
Francesco, che per primo individua il male del mondo proprio nel denaro e nel possesso, in quanto fonte di schiavitù, sfruttamento, violenza, assenza di libertà. Allora beati i poveri, perchè la povertà è fonte di gioia e di amore incondizionato, e tali dovranno essere i frati minori: vivere del proprio lavoro, per il quale non saranno pagati in denaro ma con mezzi di sussistenza; nè dovranno possedere beni, animali, ma neppure libri, perchè anche la cultura può essere strumento di potere e di asservimento.
Essi dovranno vivere come ignoranti e a tutti sottomessi, essere compagni gli uni degli altri e fraterni, non maneggiare denaro, nè avere alcuna forma di potere ed esercitare solo mestieri che hanno a che fare con la terra, il fuoco, il ferro…, per creare con le mani cose utili a tutti e farle bene. Che non accettino denaro se non per altri, come i lebbrosi banditi dal consorzio umano, e chiedano elemosina solo quando non troveranno di che lavorare.
Ma soprattutto dovranno gioire della loro condizione, essere felici di ciò che pulsa nel loro cuore e lo rende vivo e con altrettanta gioia attendere sorella morte.
Non si può certo negare che se tutto il mondo facesse propria questa regola ci sarebbe assai meno dolore. Tuttavia…
Tuttavia devo dirvi, a proposito del prendere su di sè la sofferenza dell’altro, che una volta, molti anni fa, quando ancora cercavo strenuamente significati profondi al cui mistero oggi mi sono arresa, di aver fatto qualcosa di simile.
Oltre a piangere disperatamente, quand’ero molto piccola, per i bambini del Biafra che vedevo in televisione proprio mentre stavo per portare alla bocca il mio boccone di carne, sentendomi in colpa per quell’avere di che mangiare mentre essi morivano di fame, e tentare qualche inutile digiuno…, un pò più grandicella aprii la porta del mio cuore al dolore di un uomo, il quale urlava per il gran mal di testa procuratogli da un tumore al cervello. Espressi con intensità, nella mia preghiera, il desiderio di sostituirmi a lui in quella sofferenza; la presi su di me, come dice Paoli.
Ebbene, la cosa funzionò. L’indomani la moglie mi disse che finalmente, quella stessa notte, l’uomo aveva dormito e non si era mai lamentato. Io non le raccontai il mio gesto, non le dissi di aver passato la notte in bianco, soffrendo le pene dell’inferno.
Potevo comunque dire a me stessa, ed oggi raccontarlo a voi, che avevo imparato la lezione, e cioè che l’amore funziona.Che veramente non siamo monadi isolate e che, se ne abbiamo il coraggio, possiamo prendere la croce di un altro e lui lo sentirà. Del resto molti lo fanno quotidianamente. Basta pensare a tutti quei medici, infermieri, volontari presenti nei campi profughi o nei teatri di guerra o negli ospedali del terzo mondo…Angeli in un mondo di demoni.
Quanto a me io capii che non ne ero capace e decisi che non l’avrei più fatto. Non volevo più patire per una sofferenza destinata ad un’altro. Ad ognuno il suo, mi dissi. Quando verrà il momento toccherà anche a me la mia razione. Però non dimentico. Da quella volta, e poi anche attraverso altri momenti (ad esempio quando svolgevo mansioni di assistenza domiciliare) si è radicata dentro di me una certezza: L’umanità è un corpo unico.
Ognuno di coloro che ne fanno parte può scegliere se aprire la porta che ci collega agli altri, camminalre nelle loro scarpe, sentire ciò che provano e condividerlo per allegerirne la pena, oppure tenere chiusa quella porta, ignorare, essere indifferenti, o magari aprire quel contatto solo con un famigliare, con chi ci è vicino e la cui sofferenza ci riempe di sgomento.
Forse a lasciarsi sommergere da quella corrente d’amore si sarebbe investiti non solo dal dolore, ma anche dalla gioia, come i fraticelli di San Francesco; ma ognuno conosce la sua misura, le sue possibilità ed i suoi limiti, i quali forse potrebbero dilatarsi se il clima attorno fosse diverso, contagioso, fino alla piena “conversione”, come dicono gli uomini di fede.
Chiaramente se e quando toccasse a noi, saremmo ben lieti di passare il fardello sulla spalla di un altro che ce l’offrisse.. Ad averne la certezza ci sentiremmo già immediatamente più leggeri, così leggeri che potremmo fin da ora, proprio in questo stesso istante, prendere su un piccolo peso che non ci è direttamente destinato, che non ci appartiene, sperando con forza che quella corrente d’amore, come un vento che compie il suo giro, prima o poi ci tornerà indietro.
Sì, si vivrebbe davvero meglio se tutti lo credessimo…
dicembre 2014