Incontro 24 febbraio 2015
Incontro del gruppo di lettura presso la Biblioteca Comunale ore 21.00, P.zza Garibaldi 3, primo piano.
"Acciaio" di Silvia Avallone
Di qua dal mare c'è via Stalingrado, una muraglia di case popolari modello Unione Sovietica, che l'amministrazione comunale comunista ha assegnato agli operai siderurgici che lavorano alla Lucchini. Di là dal mare invece c'è l'isola d'Elba, Ilva, un paradiso sognato e irraggiungibile popolato da ricche signore lombarde in vacanza. In mezzo, proprio in riva al mare, ci sono Anna e Francesca. Lascive, la bionda e la mora di "tredici anni quasi quattordici", vivono la loro ultima estate di innocenza prima del liceo. A giudicare da come giocano tra le onde, da come si muovono davanti allo specchio imitando le soubrette della TV… a giudicare solo dall'aspetto, come fanno in molti, si direbbero capaci di arrivare molto lontane, quelle due ragazzine. Ma in una periferia operaia come quella di Piombino, schiacciata sotto la coltre di fumo dell'altoforno, non si può prevedere il futuro di una persona in base all'aspetto o alle ambizioni. Per conoscere la storia di Anna e Francesca non basta guardare le loro forme giovani e perfette e il loro sguardo arrogante, bisogna conoscere la storia delle loro famiglie, dei fratelli, fidanzati, amici e poi naturalmente della Lucchini.
Ad esempio Sandra e Arturo, i genitori di Anna: lei è una femminista e un'attivista di Rifondazione e nonostante la stanchezza e il tedio di tutto il quartiere continua con la distribuzione del giornale. Lui naturalmente lavora all'acciaieria, ma ancora per poco, perché in realtà Arturo è un uomo fantasioso, un artista che vorrebbe spendere il suo tempo altrove, fare la bella vita, lanciarsi nel business, sparire, poi tornare e magari sparire di nuovo…
I genitori di Francesca invece, purtroppo, non vanno più da nessuna parte. Sua madre, casalinga di origini calabresi, passa il tempo a soddisfare le assurde richieste di un marito insoddisfatto e violento. Lei, Rosa, dimostra venti anni in più della sua età e piange in silenzio tutte le sere, sia quando i colpi sono per lei, sia quando il rumore delle botte arriva dalla stanza di Francesca.
Vista da dentro, dopo aver ascoltato le urla che attraversano le porte, dopo aver guardato da vicino gli angoli dei cortili e sentito gli odori delle strade, via Stalingrado non è solo il quartiere degli operai. È anche un posto in cui il futuro dura un attimo, giusto il tempo perché un nuovo colpo inatteso ti venga sferrato contro.
Alessio, Cristiano, Mattia, Anna, Francesca, Lisa e le altre ragazze, tutti i protagonisti di questa storia sono immobili e distanti, sopraffatti dalla violenza del ciclo continuo della produzione, eppure capaci di amarsi intensamente. Sono ragazzi capaci di tutto e di niente: di fuggire di notte per fare l'amore dietro una barca e di rimanere indifferenti quando la più grande struttura in acciaio al mondo, le torri gemelle, si sgretolano sotto i loro occhi in diretta televisiva. Una storia crudele e tenera in cui tutto è assurdamente vero. È vero che a quindici anni puoi lasciare la scuola per andare a fare la vita, che la polizia può entrare in casa tua e buttare per aria tutto perché cerca una prova di colpevolezza, è assurdamente vero che di lavoro si vive ma si muore anche, che il salario a volte non basta neanche per la cocaina, che un padre può darti la vita e può anche togliertela, che un bacio è sempre un bacio, anche se chi te lo dà è la tua migliore amica.
Un romanzo d'esordio che parla di un'adolescenza mai vissuta, vinta, arresa, fusa come l'acciaio a 1538 gradi. Che parla dell'età dell'entropia e del caos, quando i legami, anche quelli più forti, si spezzano e nell'aria, a ricoprire l'Elba, resta solo una densa nube rossastra.
Chi vuole conoscere meglio l'autrice può leggere anche il suo secondo romanzo.
Marina ha vent'anni e una bellezza assoluta. È cresciuta inseguendo l'affetto di suo padre, perduto sulla strada dei casinò e delle belle donne, e di una madre troppo fragile. Per questo dalla vita pretende un risarcimento, che significa lasciare la Valle Cervo, andare in città e prendersi la fama, il denaro, avere il mondo ai suoi piedi. Un sogno da raggiungere subito e con ostinazione. La stessa di Andrea, che lavora part time in una biblioteca e vive all'ombra del fratello emigrato in America, ma ha un progetto folle e coraggioso in cui nessuno vuole credere, neppure suo padre, il granitico ex sindaco di Biella. Per lui la sfida è tornare dove ha cominciato il nonno tanti anni prima, risalire la montagna, ripartire dalle origini. Marina e Andrea si attraggono e respingono come magneti, bruciano di un amore che vuole essere per sempre. Marina ha la voce di una dea, canta e balla nei centri commerciali trasformandoli in discoteche, si muove davanti alle telecamere con destrezza animale. Andrea sceglie invece di lavorare con le mani, di vivere secondo i ritmi antichi delle stagioni. Loro due, insieme, sono la scintilla.
“Acciaio” di Silvia Avallone
commento di Valeria G.
Davvero encomiabile il lavoro di questa autrice emergente, tanto più considerando la sua giovane età.
Se è lecito supporre che conosca assai bene le dinamiche emotive e sentimentali del mondo adolescenziale e giovanile descritte nel suo libro, d’altro canto viene da chiedersi come, nata a Biella e poco più che ventenne, abbia potuto raccontare altrettanto efficacemente non solo il sentire, ma anche l’agire di uomini abbruttiti da un lavoro terribile, quale quello che si svolge in un’acciaieria, dove il ferro fonde a più di 3000 gradi.
Forse vi lavora o vi ha lavorato un conoscente, un amico o un famigliare , che le ha riportato minuziosamente gli ambienti, i macchinari usati con i rispettivi nomi e funzioni, i passaggi della lavorazione, ma anche le tensioni, le difficoltà e i meccanismi di difesa degli operai; oppure, non solo si è documentata scrupolosamente su quella realtà, ma in qualche modo vi ha anche vissuto accanto.
Forse ha abitato per un pò in uno di quei casermoni cresciuti nei pressi di codesta acciaieria , dove quegli stessi operai vivono con le famiglie in squallidi appartamenti, con tutte le caratteristiche proprie della marginalità e delle periferie urbane, dei quartieri dormitorio dove l’unico momento aggregante è il bar e quello culturale la tv, o meglio il TG1.
Ai giovani che desiderano fuggire da quel destino segnato dall’esser nato lì pare che non resti altro che farsi di coca e anfetamine, e fantasticare impossibili riscatti sociali. Tra turni di notte e disastri famigliari la vita procede arrancando e inciampando sui sogni che vanno in frantumi.
Non c’è spazio nè tempo neppure per l’ amore, che genera figli anzitempo o viene confuso col sesso.
Dai casermoni di Via Stalingrado, a Piombino, il paesaggio è duplice e opposto: da un lato l’enorme ingombrante mostro dell’acciaieria Lucchini, con le sue polveri grigie, i suoi fumi e le sue ciminiere, l’inferno che sfama; dall’altro il paradiso vagheggiato ed irragiungibile, benchè vicinissimo, rappresentato dall’isola d’Elba, percepito come un premio immeritato, che può appartenere solo agli altri, quelli coi soldi, i macchinoni, i turisti del nord.
A quelli di Via Stalingrado non resta che la spiaggia proletaria dove ci si conosce tutti e i capanni dove si consumano orgasmi veloci, oppure qualche nascondiglio melmoso popolato dai gatti, spiaggette sporche di alghe e bitume, angoli di giardinetti abbandonati ed incolti, dove c’è chi, sognando, riesce a vivere momenti di bellezza e poesia. Le due ragazzine adolescenti ad esempio, che bruciano di vitalità e desideri confusi, che si appoggiano l’una all’altra gratificandosi coi loro corpi che esplodono e che esibiscono compiaciute, mentre odiano padri assenti ed irresponsabili o brutali.
Un’amicizia che a tratti diventa attrazione fatale, amore non corrisposto, detestato, abbandonato, oggetto d’invidie e gelosie ed infine recuperato, dopo la tragedia. Una galleria di personaggi probabili e realistici, come ce ne sono tanti, sapientemente descritti nei loro comportamenti incoerenti, convulsi, eccitati, disperati, chiusi nelle loro psicologie fragili, che ne fanno sostanzialmente dei perdenti, in quel loro vano tentativo di uscire dal meccanismo della ripetizione e dell’automatismo. Come essere nelle sabbie mobili ed affondare sempre più, a mano a mano che ci si agita per uscirne.
Tutto questo Silvia Avallone lo esprime attraverso un ritmo narrativo serrato ed un linguaggio moderno, pervaso da interessanti neologismi, che non indugia nelle descrizioni, incisive e sintetiche, ma scorre veloce attraverso dialoghi incalzanti tra personaggi ben riconoscibili nelle loro caratteristiche fisiche e psicologiche, quasi dei tipi umani, delineati chiaramente, come gli scenari in cui si muovono.
Acciaio si presenta come una lettura accattivante e di facile comprensione, ma certamente non banale, offrendoci il ritratto di una porzione di realtà operaia italiana colta in un tempo breve, attraverso lo sguardo di tre generazioni sessualmente distinte.
Il punto di vista dell’autrice registra quegli sguardi come una zoommata secca nella loro intimità: uomini ligi ai doveri del lavoro, donne frustrate e prigioniere di ruoli famigliari da cui non riescono ad uscire, giovani che non vogliono fare la fine dei loro genitori, ma avere subito quello che probabilmente non avranno mai, ragazzine piene di sogni ed illusioni.
Il tono della narrazione è asciutto e privo di sentimentalismi. L’autrice non cerca di emozionare nè di commuovere, e neppure di denunciare apertamente il degrado a cui può condurre una realtà sociale e lavorativa così abbruttente. Semplicemente e lucidamente descrive con rapide pennellate le quotidiane tristezze ed assurdità di personaggi con cui ognuno può facilmente identificarsi: dalle irrequietezze giovanili, ai riti di passaggio generazionale, dalle insofferenze senza soluzione di donne in vario modo abusate, ai fallimenti di fughe di uomini non cresciuti e ragazze illuse.
Lo sfondo sul quale tutto questo avviene è già datato, anche se recente. C’era ancora la lira ma le cose erano in rapida trasformazione. A cominciare dai licenziamenti e dalle delocalizzazioni, la riduzione del personale e la compartecipazione estera nella proprietà e nell’amministrazione dell’impresa industriale, l’ormai quasi inutile presenza sindacale ed una solidarietà tra i vinti che non sfocia in lotta o resistenza, ma assai più spesso si trasforma in conflitto intergenerazionale tra i diversi modi di concepire il lavoro.
Anche verso la fine, quando diventa drammatica, la narrazione conserva la sua misura ed il suo equilibrio. Anche quando i fatti precipitano ed i sentimenti diventano sempre più scuri, potenti ed ingovernabili, come le tragedie che si consumano, il tono del racconto rimane obiettivo e neutro, senza pathos. Almeno questa è la mia impressione.
Il ciclo dei vinti si conclude con l’amara constatazione che ognuno alla fine è causa del suo male, un male che pare raddoppiarsi ed aggiungersi a quello di cui non si è responsabili, perchè ci è toccato in sorte, proprio quando ci affanniamo ad uscirne.
Forse è questa la lezione che dobbiamo imparare dalla vita, i cui eventi inaspettati ci costringono a ricrederci su molte cose, a ridimensionare pretese, aspettative e convincimenti. Chissà se anche le due adolescenti alla fine si accorgono che non basta essere belle e desiderabili per tenere il male lontano e che anzi, proprio quella vanità, che le spingeva ad evitare le coetanee brutte o sfigate, alla fine si ritorce contro di loro…
Neppure stavolta l’autrice prende posizione, in modo aperto, eppure ci lascia intuire che qualcosa è cambiato nella coscienza delle due giovani donne. Come spesso accade le tragedie annientano anche il male, oltre che il bene, ed è forse per questo che, crollati i miraggi che le avevano allontanate, tornano di nuovo a cercarsi ed a volersi bene, come a dire che quando ci si è scelti e ci si ama veramente, quel sentimento può lenire la sofferenza. Imparata la lezione, e con umiltà, si può ricominciare.