Incontro 7 aprile 2015
Incontro del gruppo di lettura presso la Biblioteca Comunale ore 21.00, P.zza Garibaldi 3, primo piano.
"Colpa delle stelle" di John Green
Hazel ha sedici anni, ma ha già alle spalle un vero miracolo: grazie a un farmaco sperimentale, la malattia che anni prima le hanno diagnosticato è ora in regressione. Ha però anche imparato che i miracoli si pagano: mentre lei rimbalzava tra corse in ospedale e lunghe degenze, il mondo correva veloce, lasciandola indietro, sola e fuori sincrono rispetto alle sue coetanee, con una vita in frantumi in cui i pezzi non si incastrano più. Un giorno però il destino le fa incontrare Augustus, affascinante compagno di sventure che la travolge con la sua fame di vita, di passioni, di risate, e le dimostra che il mondo non si è fermato, insieme possono riacciuffarlo. Ma come un peccato originale, come una colpa scritta nelle stelle avverse sotto cui Hazel e Augustus sono nati, il tempo che hanno a disposizione è un miracolo, e in quanto tale andrà pagato.
Jhon Green ” Colpa delle stelle”
(un “non” commento di V.G.)
Premesso che un libro così non l’avrei mai acquistato nè letto se non mi fosse stato in qualche modo “imposto” dal “suggeritore” del nostro gruppo di lettura, dirò che l’ho letto svogliatamente e con una certa riluttanza, cercando di tenermi lontana dalla soglia del coinvolgimento.
Quindi il giudizio che segue non può che essere vago e superficiale e certamente, come capita a quegli studenti costretti loro malgrado a sorbirsi tomi verso cui non nutrono alcun interesse, mi sarò privata dell’occasione di una crescita intellettuale ed emotiva. Dirò quello che dicono quegli svogliatelli: “Pazienza!” (E, però, come li capisco…)
Il mio primo pensiero dunque di fronte a quella lettura è stato: “Devo difendermi…E poi c’è anche il film…”
Tuttavia, a rifletterci su, anche questa resistenza può essere stimolante, se indagata. Solo che per il momento non lo farò. Aggiungo semplicemente che nutro una profonda antipatia per tutta quella serie di indagini, approfondimenti, sfrucugliamenti nelle pieghe più riposte del dolore di cui si nutrono certi giornali e certa Tv, ben lieti di assecondare il gusto macabro, e per me incomprensibile, di un ampio pubblico di lettori e spettatori di cronaca nera.
Pur non essendo quella di Jhon Green una narrazione esattamente di quel tipo, visto che parla di due giovani innamorati malati di cancro e non di ragazze seviziate e fatte a pezzi dal serial killer di turno, la zona oscura nella quale lo scrittore va a rimestare è assai simile.
Per fortuna però l’autore non si compiace di scivolare nel torbido o nell’orrido, nè in un sentimentalismo di bassa lega o in un nauseabondo romanticismo. Il tono misurato, anche se spesso crudo e realistico, non intende sollecitare quel tipo di risposta nel lettore, e tuttavia la storia è diventata un film il cui target è sicuramente il grande bacino d’utenza della tv strappalacrime e delle giovani teen agers.
Viene dunque da chiedersi perchè abbia sentito la necessità di scrivere un libro del genere, e del resto sono una lettrice così modesta da non sapere se esistono narrazioni simili, con le quali fare magari dei confronti.
Mi permetto qualche ipotesi:
1° – vista la popolarità della tematica l’autore pensava di ricavarne un bel guadagno
2° – affrontare l’argomento cancro gli è servito per elaborare qualche lutto personale ( a fine libro egli ringrazia il cielo per avere conosciuto una tale Ester che non c’è più)
3° – si è trattato di una scelta molto generosa: affrontare con garbo il problema della morte e della sofferenza quando colpisce giovani senza colpa, pensando di scrivere proprio per loro affinchè, leggendo quelle vicende che essi stessi vivono, possano sentirsi meno soli.
E, a giudicare dall’interesse che il libro ha suscitato nei giovani, direi che questa è una motivazione molto forte. I ragazzi sono attratti non solo dalle storie d’amore ma anche dalle emozioni che suscita il tema della morte, e a maggior ragione quando in qualche modo è passata loro accanto.
Lo conosco assai bene quel sentimento. Ed altrettanto bene comprendo l’impulso di trasformare un libro in strumento di consolazione. Fu quel pensiero a spingermi a regalare a mio padre, quando avevo quattordici anni e lui giaceva nel suo letto d’ospedale, “I girasoli” di Simon Wiesenthal, un libro sullo stermino degli ebrei, che avevo appena letto.
Nel mio cuore di ragazzina io volevo aiutarlo a morire serenamente ed immaginavo che la lettura di un libro sulla morte lo avrebbe potuto accompagnare come un buon amico verso l’al di là, facendogli comprendere che non era solo, che altri avevano vissuto quell’esperienza prima di lui ed ora, forse, lo stavano aspettando.
Quando, non molto tempo dopo, morì, io mi accusai della sua morte, ritenendola prematura. Mi convinsi che l’avevo accellerata, come se l’avessi invitato ad andarsene. Di quella colpa riuscii ad assolvermi solo verso i 22-23 anni, quando, durante una seduta spiritica nell’università occupata dagli studenti, ebbi modo di chiedergli scusa e di sentirmi perdonata.
Nel nostro mondo sempre più votato al benessere, al proseguimento della vita ad ogni costo, dove neppure i vecchi accettano la morte, tanto più risulta non solo incomprensibile ma addirittura ingiusta la morte di un bambino o di una giovane promessa, come se toccasse all’essere umano decidere chi, come e quando far morire.
Ma questa è ancora una volta una deformazione della visione della realtà così com’è, dovuta al nostro smisurato ego.
E’ vero: il cancro è una malattia spaventosa e moderna, ma non è certo di oggi il morire giovani. Da sempre, e proprio là dove la povertà la fa da padrona, sono proprio i più piccoli ed indifesi ad andarsene per primi, tant’è che si partorisce in quei luoghi a grandi numeri, come le bestie. E totalmente bestie saremmo, se non fosse per quella piccola differenza, quella marcia in più di un’intelligenza un pò più complessa ed articolata, che ci autorizza erroneamente a voler combattere e negare non solo la morte ma l’idea stessa di mortalità.
Ce ne stupiamo, la riteniamo sbagliata, e passiamo molto tempo a chiedercene il perchè e come uscirne.
Ed eccoci cercare ed inventare grandi sensi nascosti, porci domande sul significato della vita, fare congetture e non trovare mai risposte, se non vaghe e tremolanti impressioni di verità, che non durano a lungo: fantasie a cui ci aggrappiamo perchè ci consolano, come le frasi ricamate sui cuscini a casa di Gus.
La sofferenza ci spinge a guardare in alto, verso l’universo, oppure a scavare sempre più nel nostro profondo. Ed è inevitabile, perchè la malattia, soprattutto quando è così grave e debilitante, come appunto lo è il cancro, taglia fuori dalla vita. Allora i ghirigori della mente prendono il sopravvento, si moltiplica l’attenzione verso i dettagli altrimenti trascurabili del quotidiano, bloccato in un presente circoscritto e con poche speranze di futuro.
Si è sopraffatti dalla intimità e dalla sensibilità, o furiosi di rabbia per quella sorte ingiusta, o già sospesi verso l’infinito. Spesso tutto questo coincide e cozza in stati d’animo contrastanti ed in continua alternanza, dove al coraggio subentra il cinismo e alla capacità di soffrire il desiderio di non essere più.
L’eterno andarivieni dagli ospedali, oggetto di consulti e sperimentazioni che ora accendono la speranza, ora trasformano i corpi in cavie piene di miscele esplosive, riducono a brandelli quel pò di dignità umana che resta, tanto più quanto più velocemente ci si sente galoppare verso la morte, irrefrenabilmente.
Allora neppure il proprio pensiero si riconosce più, sciolto anch’esso nei liquami incontenibili che trasudano dalle nostre carni gonfie, tumefatte o rinsecchite, attraversate da tubi e condutture che non ci appartengono, con le vene martoriate da aghi che non le trovano più e consegnati a macchine infernali che prendono il posto dei nostri reni, dei nostri polmoni, dei nostri cuori.
Non avevo certo bisogno di leggere alcun libro sull’argomento per far riemergere dalla memoria ricordi ed immagini di persone care, giovani, vecchi o adulti scomparsi.
Jhon Green non mi racconta nulla di nuovo dunque, se non forse quel mondo visto da occhi giovani, e dell’esistenza di gruppi di sostegno che allora, ai tempi in cui il cancro entrò nella nostra casa, non esistevano. Probabilmente anche oggi, benchè presenti nei reparti oncologici dei più giovani, come altre terapie di supporto quali la clawn-terapy, essi sono soprattutto una prerogativa americana. Luoghi in cui ci si piange addosso, in un dolore condiviso che pare diluirsi nel fraterno abbraccio di chi ha avuto la sfortuna di imbattersi nella stessa sorte. Mentre il resto del mondo ci evita per paura o imbarazzo o ci compatisce, qui si viene accettati e si può comparire gli uni di fronte agli altri senza vergogna per le proprie mutilazioni, le proprie ferite di guerra, accolti dalla pietà autentica di chi sa cos’è il dolore e ci rimanda il suo, come uno specchio.
Non c’era sentore di questo quarant’anni fa, quando il male colpì mio padre che ebbe solo noi per piangere e esternare la sua sconfinata tristezza.
Ma perchè il cancro fa così paura ed orrore? Perchè per anni ci siamo ostinati a chiamarlo tumore, come se questa parola lo rendesse meno devastante e subdolo della prima?
Forse perchè compare improvviso ed inaspettato, come una grande famelica bocca che ci inghiottisce senza motivo, così, per pura cattiveria, o perchè così è scritto in qualche recondito luogo dell’universo e non siamo in grado di evitarlo. Ma siamo davvero sicuri di non avere alcuna responsabilità e che la colpa sia solo delle stelle e non della stupidità umana, con le sue scelte suicide?
Perchè, quando si parla di prevenzione, l’unica forma di prevenzione che viene sostenuta dalle politiche governative è quella dei test, dei controlli ospedalieri, delle diagnosi precoci da effettuarsi addirittura con l’esame del DNA, per “fregare sul tempo” la predisposizione ereditaria? (Si pensi ad esempio a quell’attrice americana che si è fatta asportare seni ed utero per evitare di contrarre il cancro e morirne come sua madre…)
Perchè invece non ci si impegna a debellare le cause ambientali del cancro? Le fabbriche inquinanti, le emissioni di gas tossici, le sostanze cancerogene presenti in agricoltura e negli alimenti, la radioattività e quant’altro ormai è definitivamente riconosciuto come mortale e distruttivo ma mai sostanzialmente negato e messo fuori legge?
Perchè, ancora una volta, sono soprattutto i poveri, coloro che devono lavorare nelle acciaierie, nelle fabbriche di eternit, nei pozzi petroliferi o nei campi irrorati di pesticidi ed erbicidi a rimetterci la pelle, per garantire esistenze comode ed agiate a quanti il cancro possono evitarlo poichè non direttamente esposti o in grado di curarsi meglio grazie al denaro fatto sfruttando i primi? Perchè i veri criminali sono sempre in libertà?
Per tornare al libro e chiudere questa necessaria parentesi dirò che secondo me solo le ultime cinquanta pagine danno una reale e sostanziale idea di cosa significhi convivere con il cancro.
Tutto ciò che precede l’epilogo non è che un esercizio letterario ben fatto e molto “americano”: i dialoghi di quei ragazzi così speciali ed intelligenti a cui la malattia ha spezzato i sogni e bloccato fulgide carriere sono brillanti e profondi come quelli di qualsiasi bravo studente di college che i films del genere ci descrivono; sono inoltre pervasi dalla potenza dissacratoria dell’autoironia, l’unico strumento difensivo di cui ci si può avvalere quando la morte sta col fiato sul collo.
Intrigante, ma certo non originale, l’examotage del libro “galeotto” di questi Paolo e Francesca d’oltre oceano, attorno a cui si costruisce buona parte della storia: l’innamoramento, l’affinità elettiva, il viaggio in Olanda, il deludente incontro con Peter Von Hauten (lo scrittore alcolista e refrattario de “L’imperiale afflizione), che alla fine disvela la verità sulla sua impietosa arroganza e si riscatta facendosi tramite di una sorta di estremo saluto tra i due giovani e sfortunati innamorati, tutti elementi che sostengono l’impianto narrativo con un pizzico di suspance e mistero, stuzzicando il lettore altrimenti prossimo allo sbadiglio.
Alla fine si arriva là dove si doveva arrivare: come spesso accade col cancro colui che credeva d’esser salvo muore, e colei che era già con un piede nella fossa, restia a lasciarsi andare all’amore per la precarietà della sua sorte e appesa alla sottile speranza che un farmaco sperimentale possa ancora tenerla in vita, sopravviverà al suo amato.
Il destino gioca sempre strani e sadici scherzi da cui non ci si può difendere se non disilludendosi e riconoscendo che è lui il più forte: non siamo noi a contenere l’universo, ma è l’universo ad ospitarci.
Si vive per capire questo ed arrendersi all’evidenza delle cose, scoprendo che solo l’amore può recare conforto all’essere umano perso tra le stelle, l’amore nelle sue varie e molteplici forme: quello dei genitori che lottano assieme ai figli, degli amici fraterni e degli innamorati, e quello di scrittori che, forse come tenta di fare Jhon Green alla pari del primo Van Houten, cercano di riempire di calore ed intimità le lunghe e sfibranti giornate di giovani malati di cancro. Ma soprattutto è l’amore dell’universo che ci rasserena, quando ci travolge con la luce e la bellezza della vita, della quale ci accorgiamo solo quando dobbiamo distaccarcene.
“Solo chi ha provato cosa sia il dolore può conoscere la gioia” recita uno dei tanti luoghi comuni che la mammadi Gus ricama sui suoi cuscini o quadretti sparsi per la casa.
“Mi dispiace proprio di dovermene andarmene ora che non mi manca niente…” diceva la mia nonna ultranovantenne.
Comprenderemmo questa semplice verità se guardassimo alle cose del mondo ogni volta come se quello fosse l’ultimo sguardo, alla pari di Hazel nel parco che osserva estasiata la luce di un giorno senza pioggia e i bambini che si rincorrono sul prato.
Alla fine del libro, proprio come alla fine della vita, il mistero si chiarisce. Ci si crede importanti e si vorrebbe non essere dimenticati, si vorrebbe passare alla storia, invece nulla resta se non nel cuore di qualcuno che ci ha voluto bene, finchè anche lui non scompare. Anche i più grandi in fondo non hanno inventato niente, hanno solo scoperto casualmente qualcosa che esisteva già prima di noi ed oltre noi, in quell’universo da cui tutto proviene, nel bene e nel male.
La vera domanda dunque non è perchè c’è il male, perchè si soffre o perchè si muore, visto che tutto questo è l’altra faccia dell’essere vivi, bensì come stare in questa porzione di universo nella quale ci troviamo, e cosa fare della nostra esistenza perchè possa avere un significato.
Certamente, per come gli esseri umani si comportano, per quella nostra squisita capacità fare il male anche gratuitamente, viene da chiedersi se non siamo proprio noi il cancro più grande, l’obbrobrio più devastante della creazione. Solo l’uomo infierisce sulla vittima con crudeltà, oltre il suo stesso bisogno. L’animale non uccide che per necessità di sopravvivenza. Da cosa ci deriva questa capacità di aggressione così smisurata, anche quando amiamo e riduciamo in schiavitù l’oggetto del nostro bene?
Perchè sappiamo fare così raramente buon uso di quella facoltà che va sotto il nome di “libero arbitrio” e per la quale ci poniamo sul piedistallo, al di sopra dell’animale che agisce per istinto?
Dunque non aggiungiamo il nostro male a quella quota di dolore che le stelle ci riservano necessariamente in quanto esseri finiti e mortali, impariamo l’umiltà e l’amore vero, e la semplice e pura gioia dell’esser vivi, di cui ci accorgiamo solo quando dobbiamo andarcene. Forse, alla fine, è solo questo che dobbiamo imparare.