L’inondazione
di Adrian Bravi
Una riflessione di V.G.
Non ci crederete, ma mai, come in questi ultimi due o tre anni, ho rimpianto il mio piccolo e logoro canotto finito nella spazzatura.
Con l’acqua non si scherza e da un momento all’altro può capitare di doversi servire almeno di una zattera: bombe d’acqua, fiumi che rompono gli argini e allagano campi per miglia e miglia, terreni che tracimano sotto piogge sempre più sferzanti portandosi via l’inutile opera dell’uomo, che contiene, argina, tampona, perfora, modifica e stravolge gli assetti naturali, il più delle volte abbandonando a se stesso, nella sua inevitabile lotta contro il tempo, ciò che ha edificato.
Chissà se il villaggio di Rio Sauce era stato costruito troppo a ridosso del fiume, scrivendo da sè il proprio destino, o se, anche questa volta, l’abituale soglia di precauzione non fu sufficiente a far fronte a piogge più abbondanti del solito, a cui magari s’era aggiunta, come accade anche nel nostro bel paese, la mancata pulizia e manutenzione degli argini, visto che i tradizionali custodi del territorio se ne vanno verso nuovi spazi di benessere…
Ormai accade sempre più di frequente che i nostri territori agricoli, le nostre belle ordinate campagne occidentali somiglino a quelle sfortunate aree del Pacifico tradizionalmente inondate da tzunami, devastanti piogge monsoniche, tifoni o uragani tropicali.
Dovremmo farcene una ragione ed agire di conseguenza anzichè continuare pervicacemente sulla strada delle grandi opere, facendo spallucce ai mutamenti climatici, al dissesto idrogeologico e allo scioglimento dei ghiacci, con conseguente innalzamento delle masse d’acqua su tutto il nostro pianeta.
Fatti questi che riportano inevitabilmente il comune sentire, meno che quello dei politici, a ricordare la precarietà della vita e al vedere sgretolata ogni presunzione di immortalità e permanenza.
Ma certo questa sensazione non dev’essere sconosciuta a quelle popolazioni da sempre avvezze a confrontarsi con i possenti elementi della natura, fin’ora assai più benevola verso di noi; tant’è che in certi luoghi le case sono di paglia e fango forse più per strategia che per povertà di mezzi.
Se la vita e le economie sono possibili solo accanto ai corsi d’acqua e se allo stesso tempo quei corsi d’acqua ed il cielo sono così inclementi con le popolazioni che abitano in quei luoghi a che serve costruire solide abitazioni di cemento, visto che anch’esse sarebbero spazzate via dall’incontenibile furia degli elementi? Tanto vale avere appena un tetto sulla testa che possa essere facilmente ricostruito.
Mi sono chiesta molte volte cosa devono provare quei popoli la cui esistenza è sempre appesa ad un filo. Quale spinta verso il futuro possono coltivare dentro di sè? Non è forse il presente la loro unica certezza, nella quale vivono accontentandosi di ciò che hanno ed anzi ringraziando di essere vivi ogni nuovo giorno che passa, come traspare dalle loro espressioni sempre così misurate?
Anche Ilario Morales in fondo non è turbato più di tanto. Non si avverte disperazione negli animi di nessuno di coloro i quali abbandonano le proprie cose e la propria casa. Non c’è rabbia nè rimpianto. Forse sono abituati alle bizze del fiume, forse nei cuori semplici ed un pò ingenui di quegli abitanti c’è la rassegnazione di chi sa che le cose passano e dunque ci si deve adattare ai cambiamenti, e magari riderci anche un pò su, così, tanto per non piangere.
“Non ci resta che piangere” diceva infatti il buon Troisi, rappresentando sullo schermo, da napoletano verace, il potere consolatorio dell’ironia.
C’è sapore di fatalismo anche nell’animo di Ilario Gongales. L’autore non si premura di dirci se le cause dell’inondazione sono imputabili a dighe malcostruite da ingegneri ed imprenditori edili a cui non importa nulla di coloro che vivono a valle, come nel caso del nostro Vayont, o se il paese è sorto troppo vicino al fiume, così che il disastro sarebbe da attribuirsi solo alla stupidità umana…Gli antefatti sono vaghi e privi d’importanza. Forse è stato semplicemente il destino.
Ciò che conta invece è il presente, un presente tutto sommato neppure troppo drammatico visto che non ci sono morti, ma solo strade e case sommerse dall’acqua , e l’evidenza di una natura selvaggia la quale, non appena l’uomo ritira la sua presenza, comincia a riappropriarsi di ciò che le era stato tolto.
Così il paese sommerso si popola di piante e yacarè.
Mentre tutti scappano l’unico a restare eroicamente sul campo a difendere l’opera dell’uomo, la sua, fatta soprattutto di ricordi ed affetti che permangono oltre la morte, è Morales.
Sono soprattutto i morti che non vuole lasciare, più che le mura e gli oggetti della sua dimora. Ormai è solo, gli basta la soffitta. Forse è troppo vecchio per pensare di ricominciare altrove. Lì c’è la sua falegnameria, la storia della sua esistenza, nel bene e nel male. E poi prova quasi un senso di orgogliosa fierezza per essere rimasto l’unico a difendere quei luoghi dall’invasione di cinesi o coreani che siano, sempre pronti a lanciarsi avanti nelle imprese più strane, a cavare sangue anche da una zucca, a colonizzare e a speculare perfino sui disastri. E’ un sospetto comprensibile che però alla fine si rivela infondato. Si tratta solo di turisti giapponesi.
E poi ci sono gli sciacalli, quelli che abbiamo conosciuto anche noi in occasione dei vari terremoti e frane che hanno colpito le nostre città e paesi.
Stranamente però tutta quell’acqua che ha cacciato via gli abitanti di Rio Sauce conferisce al luogo, a parte la puzza di marcio, un fascino nuovo, un motivo di stranezza, di meraviglia, a cui Morales si abbandona elaborando congetture e speculazioni filosofiche tra il saggio ed il grottesco.
L’uomo percorre piacevolmente con la sua barca le acque piene di sorprese che sovrastano il villaggio e costruisce mentalmente mappe in cui a volte si perde.
Allora quella specie di palude da cui emergono solo le punte dei tetti o galleggiano bambole logore e nella quale l’unico punto di riferimento saldo è rappresentato, non casualmente, dalla cancellata del cimitero, diventa una sorta di Lete, un fiume dell’oblìo che sottilmente e simbolicamente lo avvicina all’ultimo traguardo. A quel punto non gli sembrerà avere più senso il restare ancora lì quando le acque si saranno completamente ritirate e la realtà balzerà ai suoi occhi così prepotentemente prosaica.
L’inondazione quindi finisce per diventare una specie di addestramento, di preludio a quel distacco dalle cose del mondo che ritiene ormai giunto.
Benchè ancora arzillo e combattivo (salva un giapponese puntandogli il fucile contro, va ad esplorare la situazione a Chinatown, uccide un coccodrillo e ne malmena altri due e pietosamente sfama lo yacarè finito nella camera della figlia), avverte che il proprio compito è concluso.
Neppure il vecchio sogno del teatro, che sta finalmete andando in porto grazie al figlio Jiulian, il quale si rivela non essere solo un buono a nulla, gli fa tornare la voglia di continuare la sua vecchia vita.
Quel suo affannoso vagabondare tra fiume e terraferma gli ha fatto un ultimo dono: un cane. Anzi, il dono è reciproco, perchè anche Costante, così si chiama il randagio, ha trovato un amico nel suo nuovo padrone. Gli starà sempre accanto fino ad accompagnarlo al ricovero dove Morales potrà ancora essere utile, aiutando quelli messi peggio di lui.
La vecchia realtà si allontana e sbiadisce sempre più e lui entra in una dimensione piacevolmente confusa e trasognata. Ora non ha più bisogno neppure del cimitero per parlare con sua moglie perchè essa è sempre lì, con lui, in ogni suo gesto, perfino sulla sua mano quando accarezza la testa di Clemente, di ritorno dal suo giretto con pisciatina nel giardino del ricovero
Che ci crediate o no quando penso alla mia maggiore età anch’io la vedo come quella di Morales. Anche se fin’ora non ho conoscoiuto inondazioni certe volte è proprio come se navigassi a vista su un fiume su cui spuntano solo pochi tetti e mi figuro un domani meno solitario del mio presente, magari accompagnata anch’io da un cane nei landroni di una casa di riposo, sperando di trovare la mia Suor Serafina e non l’aguzzina di turno.
Ringrazio perciò Adrian Bravi per avermi così teneramente condotto attraverso certi angoletti della mia anima in cui di solito non guardo, pur sapendo che esistono.
A volte fa proprio bene gettare un pò di luce su ciò che non vogliamo vedere. Una bella spolveratina e via, il viaggio continua.
L’inondazione
di Adrian Bravi
Una riflessione di V.G.
Non ci crederete, ma mai, come in questi ultimi due o tre anni, ho rimpianto il mio piccolo e logoro canotto finito nella spazzatura.
Con l’acqua non si scherza e da un momento all’altro può capitare di doversi servire almeno di una zattera: bombe d’acqua, fiumi che rompono gli argini e allagano campi per miglia e miglia, terreni che tracimano sotto piogge sempre più sferzanti portandosi via l’inutile opera dell’uomo, che contiene, argina, tampona, perfora, modifica e stravolge gli assetti naturali, il più delle volte abbandonando a se stesso, nella sua inevitabile lotta contro il tempo, ciò che ha edificato.
Chissà se il villaggio di Rio Sauce era stato costruito troppo a ridosso del fiume, scrivendo da sè il proprio destino, o se, anche questa volta, l’abituale soglia di precauzione non fu sufficiente a far fronte a piogge più abbondanti del solito, a cui magari s’era aggiunta, come accade anche nel nostro bel paese, la mancata pulizia e manutenzione degli argini, visto che i tradizionali custodi del territorio se ne vanno verso nuovi spazi di benessere…
Ormai accade sempre più di frequente che i nostri territori agricoli, le nostre belle ordinate campagne occidentali somiglino a quelle sfortunate aree del Pacifico tradizionalmente inondate da tzunami, devastanti piogge monsoniche, tifoni o uragani tropicali.
Dovremmo farcene una ragione ed agire di conseguenza anzichè continuare pervicacemente sulla strada delle grandi opere, facendo spallucce ai mutamenti climatici, al dissesto idrogeologico e allo scioglimento dei ghiacci, con conseguente innalzamento delle masse d’acqua su tutto il nostro pianeta.
Fatti questi che riportano inevitabilmente il comune sentire, meno che quello dei politici, a ricordare la precarietà della vita e al vedere sgretolata ogni presunzione di immortalità e permanenza.
Ma certo questa sensazione non dev’essere sconosciuta a quelle popolazioni da sempre avvezze a confrontarsi con i possenti elementi della natura, fin’ora assai più benevola verso di noi; tant’è che in certi luoghi le case sono di paglia e fango forse più per strategia che per povertà di mezzi.
Se la vita e le economie sono possibili solo accanto ai corsi d’acqua e se allo stesso tempo quei corsi d’acqua ed il cielo sono così inclementi con le popolazioni che abitano in quei luoghi a che serve costruire solide abitazioni di cemento, visto che anch’esse sarebbero spazzate via dall’incontenibile furia degli elementi? Tanto vale avere appena un tetto sulla testa che possa essere facilmente ricostruito.
Mi sono chiesta molte volte cosa devono provare quei popoli la cui esistenza è sempre appesa ad un filo. Quale spinta verso il futuro possono coltivare dentro di sè? Non è forse il presente la loro unica certezza, nella quale vivono accontentandosi di ciò che hanno ed anzi ringraziando di essere vivi ogni nuovo giorno che passa, come traspare dalle loro espressioni sempre così misurate?
Anche Ilario Morales in fondo non è turbato più di tanto. Non si avverte disperazione negli animi di nessuno di coloro i quali abbandonano le proprie cose e la propria casa. Non c’è rabbia nè rimpianto. Forse sono abituati alle bizze del fiume, forse nei cuori semplici ed un pò ingenui di quegli abitanti c’è la rassegnazione di chi sa che le cose passano e dunque ci si deve adattare ai cambiamenti, e magari riderci anche un pò su, così, tanto per non piangere.
“Non ci resta che piangere” diceva infatti il buon Troisi, rappresentando sullo schermo, da napoletano verace, il potere consolatorio dell’ironia.
C’è sapore di fatalismo anche nell’animo di Ilario Gongales. L’autore non si premura di dirci se le cause dell’inondazione sono imputabili a dighe malcostruite da ingegneri ed imprenditori edili a cui non importa nulla di coloro che vivono a valle, come nel caso del nostro Vayont, o se il paese è sorto troppo vicino al fiume, così che il disastro sarebbe da attribuirsi solo alla stupidità umana…Gli antefatti sono vaghi e privi d’importanza. Forse è stato semplicemente il destino.
Ciò che conta invece è il presente, un presente tutto sommato neppure troppo drammatico visto che non ci sono morti, ma solo strade e case sommerse dall’acqua , e l’evidenza di una natura selvaggia la quale, non appena l’uomo ritira la sua presenza, comincia a riappropriarsi di ciò che le era stato tolto.
Così il paese sommerso si popola di piante e yacarè.
Mentre tutti scappano l’unico a restare eroicamente sul campo a difendere l’opera dell’uomo, la sua, fatta soprattutto di ricordi ed affetti che permangono oltre la morte, è Morales.
Sono soprattutto i morti che non vuole lasciare, più che le mura e gli oggetti della sua dimora. Ormai è solo, gli basta la soffitta. Forse è troppo vecchio per pensare di ricominciare altrove. Lì c’è la sua falegnameria, la storia della sua esistenza, nel bene e nel male. E poi prova quasi un senso di orgogliosa fierezza per essere rimasto l’unico a difendere quei luoghi dall’invasione di cinesi o coreani che siano, sempre pronti a lanciarsi avanti nelle imprese più strane, a cavare sangue anche da una zucca, a colonizzare e a speculare perfino sui disastri. E’ un sospetto comprensibile che però alla fine si rivela infondato. Si tratta solo di turisti giapponesi.
E poi ci sono gli sciacalli, quelli che abbiamo conosciuto anche noi in occasione dei vari terremoti e frane che hanno colpito le nostre città e paesi.
Stranamente però tutta quell’acqua che ha cacciato via gli abitanti di Rio Sauce conferisce al luogo, a parte la puzza di marcio, un fascino nuovo, un motivo di stranezza, di meraviglia, a cui Morales si abbandona elaborando congetture e speculazioni filosofiche tra il saggio ed il grottesco.
L’uomo percorre piacevolmente con la sua barca le acque piene di sorprese che sovrastano il villaggio e costruisce mentalmente mappe in cui a volte si perde.
Allora quella specie di palude da cui emergono solo le punte dei tetti o galleggiano bambole logore e nella quale l’unico punto di riferimento saldo è rappresentato, non casualmente, dalla cancellata del cimitero, diventa una sorta di Lete, un fiume dell’oblìo che sottilmente e simbolicamente lo avvicina all’ultimo traguardo. A quel punto non gli sembrerà avere più senso il restare ancora lì quando le acque si saranno completamente ritirate e la realtà balzerà ai suoi occhi così prepotentemente prosaica.
L’inondazione quindi finisce per diventare una specie di addestramento, di preludio a quel distacco dalle cose del mondo che ritiene ormai giunto.
Benchè ancora arzillo e combattivo (salva un giapponese puntandogli il fucile contro, va ad esplorare la situazione a Chinatown, uccide un coccodrillo e ne malmena altri due e pietosamente sfama lo yacarè finito nella camera della figlia), avverte che il proprio compito è concluso.
Neppure il vecchio sogno del teatro, che sta finalmete andando in porto grazie al figlio Jiulian, il quale si rivela non essere solo un buono a nulla, gli fa tornare la voglia di continuare la sua vecchia vita.
Quel suo affannoso vagabondare tra fiume e terraferma gli ha fatto un ultimo dono: un cane. Anzi, il dono è reciproco, perchè anche Costante, così si chiama il randagio, ha trovato un amico nel suo nuovo padrone. Gli starà sempre accanto fino ad accompagnarlo al ricovero dove Morales potrà ancora essere utile, aiutando quelli messi peggio di lui.
La vecchia realtà si allontana e sbiadisce sempre più e lui entra in una dimensione piacevolmente confusa e trasognata. Ora non ha più bisogno neppure del cimitero per parlare con sua moglie perchè essa è sempre lì, con lui, in ogni suo gesto, perfino sulla sua mano quando accarezza la testa di Clemente, di ritorno dal suo giretto con pisciatina nel giardino del ricovero
Che ci crediate o no quando penso alla mia maggiore età anch’io la vedo come quella di Morales. Anche se fin’ora non ho conoscoiuto inondazioni certe volte è proprio come se navigassi a vista su un fiume su cui spuntano solo pochi tetti e mi figuro un domani meno solitario del mio presente, magari accompagnata anch’io da un cane nei landroni di una casa di riposo, sperando di trovare la mia Suor Serafina e non l’aguzzina di turno.
Ringrazio perciò Adrian Bravi per avermi così teneramente condotto attraverso certi angoletti della mia anima in cui di solito non guardo, pur sapendo che esistono.
A volte fa proprio bene gettare un pò di luce su ciò che non vogliamo vedere. Una bella spolveratina e via, il viaggio continua.