Incontro 20 febbraio 2018

Anni ’50, Soreni, Sardegna. Maria Listru, figlia di Anna Teresa Listru, è una fill’e anima. Quarta e ultima nata, viene adottata da Tzia Bonaria Urrai, nubile benestante e sarta di facciata. Sono i lustri in cui nell’entroterra sardo è diffusa la pratica del “fillus de anima” ovvero di quell’accordo ingenerato tra privati per cui si manifesta l’affidamento volontario e consensuale di un figlio da parte dei genitori a terze persone. La piccola si ritrova così in una nuova casa, con nuove regole perché quelle della madre adottiva sono legge di Dio e come tali vanno rispettate, e con uno spazio tutto per sé. L’anziana, resasi conto delle condizioni economiche e affettive in cui la giovane è vissuta, inizia un vero e proprio lavoro di ricostruzione, un lavoro atto a creare prima di tutto un rapporto di amore, di rispetto e di famiglia.
E quello che si instaura tra le due, è un legame fortissimo. Bonaria dona alla bambina istruzione, saggezza, intelligenza, severità, affetto e generosità, tanto che questa ha tutti gli strumenti per crescere sana e responsabile, ha tutti gli strumenti per crescere nella consapevolezza che alcune cose possono essere fatte, mentre altre, no. Questi concetti, purtroppo, non sempre e non necessariamente coincidono con l’idea filosofica del giusto e dello sbagliato. 
Ma l’opera non si esaurisce con quanto sino ad ora esposto. Attorno alla figura di Bonaria si cela il mistero, il segreto. E’ oggetto e destinataria di domande, domande alle quali non può essere data risposta, domande, ancora, che semplicemente non possono essere poste. Maria si impegna a mantenere il silenzio, a domare la curiosità. Non sa spiegarsi il perché di quelle improvvise uscite notturne, ma sa anche che l’anziana è stata categorica in merito. Quando scoprirà quel che davvero si cela dietro la sua figura, quel che queste sortite notturne hanno ad oggetto, resterà destabilizzata e si staccherà da quel ventre materno che l’ha tirata sù per ritornarvi soltanto dopo aver maturato, soltanto quando alcuna parola è più necessaria perché ogni silenzio vale più di ogni verbo espresso. 
Caratterizzato da un linguaggio curato, fluente, quasi magico, uno stile narrativo capace di far rivivere le tradizioni, le superstizioni e le credenze della cultura sarda, “Accabadora” è un romanzo che si auto conclude in appena una giornata ma che lascia il segno. L’intero suo scorrimento è caratterizzato da quell’alone del mito, della fiaba mixato alla trattazione di argomenti attuali ed infine, alla dimensione eterna. Quest’ultima è quella che parla dell’orgoglio, dei doveri di una figlia verso la madre e della madre verso la figlia, della vita, del significato che le attribuiamo, di quando questa perde quei connotati che siamo soliti riconoscere quali elementi giustificativi di dignità e di vivere.
 

Mian88)

One Response to “Incontro 20 febbraio 2018”

  • admin scrive:

    L'accabadora di Michela Murgia

    (un commento di Valeria G.)

    A pensarci bene la morte ha molte variabili, anche se, a dire il vero, non tante quante la vita, ma certamente assai più della nascita. (Viene spontaneo metterle a confronto visto che sono strettamente legate e consequenziali, non potendoci essere un'omega se prima non ci fu un'alfa).
    Per venire al mondo infatti non occorrono più di nove mesi ed a volte anche meno: dall'inseminazione alla fecondazione, dalla divisione cellulare alla crescita del corpo estraneo attraverso una gestazione più o meno impegnativa, il cui tempo si conclude con un vagito disperato, dopo un travaglio che va da poche ore a qualche giorno ed una lacerazione grondante sangue e dolore che si ricorderà per tutta la vita.
    Nella nascita il tempo è stabilito, codificato, scritto nel DNA della specie, ovunque essa abbia luogo.
    Per la morte invece no. Il suo tempo può essere breve e fugace quanto un respiro, l'ultimo appunto, oppure lento ed inesorabile, potendo durare addirittura anni. Questo naturalmente se consideriamo che il progressivo declino delle funzioni vitali, fino al loro completo ed irreversibile arresto, non può più essere definito vita, essendo invece tempo preparatorio della morte. Il trapasso in sé invece, quando l'anima si stacca dalla prigione del corpo e si invola verso i campi elisi, non è che un attimo, lo stesso breve attimo di quella prima assunzione di aria fuori dal ventre materno, quando venimmo alla luce. Ciò che fu preso in un'oncia di secondi viene reso altrettanto istantaneamente.
    Siamo soliti pensare al nostro viaggio nell'utero materno come a qualcosa di estremamente confortevole, al calduccio di un ambiente ovattato e sicuro, nel quale i rumori arrivano dolci e gentili, come le parole affettuose della mamma. Ma siamo certi che è così? Siamo davvero convinti che non sia anche quello un viaggio difficile e pieno di spaventi, ancor prima di quell'ultimo passaggio attraverso lo strazio delle forche caudine, quando ci pare di morire, più che di nascere?
    Come sia o come non sia, il tempo del transito dallo stato di feto a quello di neonato è quello e solo quello, senza grosse variabili, come si è detto.
    Al contrario, per la morte, fatte le debite eccezioni (colpi apoplettici, incidenti fatali ….) i tempi sono molto spesso lunghi, a volte lunghissimi, tant'è che si prega affinché sopraggiunga al più presto quella che, quando la vita è vita, non vogliamo neppure sentir nominare. Ma cosa siamo disposti a fare per porre fine a quella sofferenza? Per accelerare la dipartita di qualcuno che ci tiene ancorati al suo capezzale per un tempo che ci pare infinito e che condiziona così pesantemente la nostra esistenza per anni ed anni? E per la nostra stessa fine?
    La realtà è ben diversa da quella di un film western dove il cavallo azzoppato lo si abbatteva, pur con le lacrime agli occhi…Inoltre, può anche accadere il contrario e cioè che l'affezione verso i nostri animali da compagnia, per restare in questo campo, ci spinga a tentare anche le cure più estreme pur di non separarcene. (Oggi, spesso, sembra davvero non esserci più alcuna differenza tra l'amore provato per un cane e quello verso un essere umano).
    Dentro gli estremi di quel “tempo lungo” della morte c'è spazio dunque per entrambi gli approcci: da un lato per accanirsi a mantenere in vita a qualunque costo un essere pressoché vegetale, dall'altro per bramarne la dipartita, sia per la stanchezza dell'accudimento infinito, sia per solidarietà con l'altrui sofferenza. Le cronache sono piene di esempi dell'uno e dell'altro tipo, ma la parte del leone in questi ultimi anni l'ha fatta il partito dell'accelerazione, tant'è che finalmente si è giunti (nel mese di dicembre 2017) ad emanare la lungamente attesa legge sul testamento biologico, ovviamente contestata dai cattolici più oltranzisti e radicali.
    Con essa finalmente si potrà disporre più liberamente di quel “tempo infinito” che precede la fine naturale di un corpo ormai incapace di qualsivoglia funzione autonoma. Potremo decidere di ciò fin da quando godiamo di ottima salute, lasciarlo scritto su un atto che ha valore legale e nel quale ognuno può dare disposizioni circa il proseguimento o meno di quelle cure estreme volte ad allungare di qualche giorno o di qualche mese la nostra agonia. Analogamente saremo in grado di rispettare anche la volontà dei nostri cari senza paura di essere fraintesi o accusati di tentato omicidio.
    Prima di leggere il libro della Murgia, pensavo che l'urgenza di porre fine al protrarsi del dolore fisico e psicologico del corpo immobilizzato fosse soprattutto figlia dei nostri tempi, i quali, proprio a causa di quei progressi scientifici che hanno reso possibile l'allungamento della vita, spesso ne hanno procurato lo scadimento della qualità.
    Ero convinta quindi che un tempo non dovesse porsi il problema delle lunghe agonie e dei coma irreversibili trascorsi attaccati a macchine e a tubi, avendo almeno, se non le pance sempre piene, almeno la fortuna di andarsene in fretta. Del resto anche i miei nonni avevano fatto abbastanza presto a passare dall'altra parte…Invece devo ricredermi, se è vero, ed è presumibile che lo sia viste certe tracce e testimonianze storiche, che anche in passato non si accettasse una vita a metà, tant'è che in Sardegna e forse non solo, c'erano persone deputate più o meno palesemente a rendere la dipartita più veloce: l'accabadora, appunto.
    Mi sono fatta l'idea che tale figura trovasse una sua ragion d'essere a causa delle dure condizioni di vita di quelle popolazioni, per le quali forza fisica e salute erano fattori indispensabili per la sopravvivenza. Al contrario l'accudimento di un vecchio o di uno storpio, richiedendo tempo e denaro che non possedevano, rendeva quelle presenze ingombranti, oltre che produttivamente inutili. Sparta insegna…
    La stessa persona inferma, nella globalità di quel contesto, non poteva che sentirsi un peso per la propria famiglia a causa della sua menomazione, tanto più se prima era persona valida.
    Sono la modernità ed il benessere che hanno reso possibile il ridimensionamento delle necessità egoiche e liberato energie per una maggiore sensibilità verso il prossimo, cui hanno fatto seguito leggi sulla tutela dei soggetti più deboli.
    E' in considerazione di ciò che si può comprendere la straziante volontà di morte di uno dei personaggi del libro, il quale, persa una gamba, a quei tempi non poteva certo immaginare di sostituirla con una protesi, così come oggi fanno quegli straordinari atleti delle para-olimpiadi a cui tutti guardiamo con così tanta ammirazione. E tuttavia, d'altra parte, c'era anche chi ben più prossimo alla morte, benché vecchio ed infermo, non aveva alcuna voglia di andarsene all'altro mondo!
    Ognuno dunque aveva ed ha il suo proprio e personale atteggiamento verso codeste questioni, essendo sopportabile per alcuno ciò che per altri non è.
    Ognuno deve decidere per sé, abbarbicandosi alla vita con la stessa forza delle radici alla terra anche quando coloro che accudiscono sono stanchi di quell'inutile sacrificio, oppure invocando il gesto di pietà di un'accabadora quando, anche se giovani, ci si sente totalmente devastati dall'infermità.
    Dunque, chiamata dagli interessati, la vecchia andava nel cuore della notte ad offrire il suo sevizio. Stordiva, probabilmente con una sostanza soporifera, il moribondo e poi lo soffocava con un cuscino. Non era certo cosa di cui vantarsi o andare fieri, ma necessaria, forse retaggio di tempi remotissimi, addirittura pagani, quando i preti ancora non esistevano e l'estrema unzione non conviveva ancora, pur se a fatica, con la pratica della buona morte.
    Quando questo cominciò ad accadere, consapevoli che si trattava di qualcosa che configgeva con la benedizione cristiana, i famigliari del futuro defunto presero a rendersi conto che i due poteri, quello della vita e quello della morte, non potevano coesistere. Dunque prima dell'esecuzione dell'accabadora (colei che finisce) veniva eliminato dalla stanza e dal corpo del moribondo ogni segno di cristianità che, rappresentando una protezione, avrebbe ostacolato il lavoro della donna.

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    (attenzione, quello che segue è la trama)

    Di tutto questo ci racconta Michela Murgia, scrittrice sarda ormai nota al grande pubblico per i suoi interventi televisivi in una trasmissione di Rai 3 e soprattutto famosa per le spietate stroncature a libri troppo ordinari per i suoi standard piuttosto elevati. E se lo può certamente permettere, essendo scrittrice di solida formazione linguistica e letteraria e di affascinante e sicura affabulazione.
    Il tema dell'eutanasia viene affrontato in modo suggestivo ambientando le vicende  nel paese sardo di Soreni, in un periodo storico compreso all'incirca tra gli anni '20  e gli anni '60 del millenovecento. La storia è narrata a singhiozzi, attraverso sequenze di quadri emblematici e significativi, volti a rappresentare atmosfere impalpabili, più che a fornire pedanti descrizioni.
    Primo fra tutti la faccenda della “figlia dell'anima”, qualcosa di simile a ciò che abbiamo trovato nell'Arminuta di Donatella di Pitrantonio, la quale fa riferimento ad una pratica d'adozione veloce ed abbastanza diffusa in un passato in cui la vita era troppo dura per preoccuparsi di svolgerla entro i parametri di qualsivoglia legge.
    Un'anziana sarta, il cui giovane marito non tornò mai dal Piave – come tanti altri della valorosa Brigata Sassari, là mandati 35 anni prima ed improvvisamente scopertisi Italiani – vedendo in un negozio una bambina, la quarta di una famiglia senza padre, rubare una manciata di ciliege e per questo severamente punita con un ceffone dalla madre, se ne invaghisce e la sceglie quale “figlia dell'anima”.
    Comincia così il particolare destino di Maria che, da ultimogenita, trascurata ed invisibile, diventa la privilegiata figlia di una donna rispettabile ed a cui non manca niente, cosa questa che la pone in contrasto con la famiglia d'origine. Maria infatti ama studiare e si affeziona alla maestra originaria di Torino, mentre la sorella e la madre la deridono per questa sua differenziazione.
    Maria ha molte qualità: è arguta, intelligente, laboriosa, saggia e…curiosa e si chiede dova vada qualche volta, di notte, la sua madre adottiva e chi siano quelle persone che la vengono a chiamare e di cui l'anziana donna non intende darle conto, nonostante le sue insistenti domande.
    Quando lo scoprirà, attraverso la dolorosa confessione del suo amico, il quale assiste involontariamente al soffocamento del fratello invalido da parte della vecchia, che l'uomo aveva implorato a lungo affinché ponesse fine alle sue sofferenze, Maria non reggerà il peso della rabbia e dello sconforto.  Fatte le valigie fugge da quella casa e, aiutata dalla maestra che avverte la sua pena, pur non conoscendone il motivo, trova rifugio nel continente, dove farà la bambinaia presso una famiglia benestante e rinascerà a nuova vita.
    Qui, dopo un difficile inserimento, avrà modo di ricontattare una parte di sé che aveva appena intravisto al matrimonio di sua sorella, vale a dire la propria incipiente femminilità, il potere della bellezza e del desiderio. A destarla a se stessa sarà un evento traumatico, in seguito al quale il giovane figlio della coppia, prima così freddo ed ostile, è costretto a fare i conti con una zona oscura del suo passato di bambino.
    Durante una crisi di pianto Maria lo soccorre e lo conforta dell'abuso subito in tenera età, il che fa sì che i due si ritrovino reciprocamente coinvolti in un'attrazione dell'anima più che del corpo, attrazione che ha come terreno di coltura l'aver entrambi conosciuto il male.
    Ben presto però quel segreto, che sarebbe potuto evolvere in qualcosa di ancor più sconveniente, finisce per diventare motivo dell'allontanamento di Maria da quella casa. La sorella del ragazzo infatti, gelosa di quel rapporto privilegiato, lo denuncerà ai genitori e la ragazza sarà cacciata. Nel frattempo anche una lettera della sorella sposata le chiede di tornare al paese per assistere la vecchia madre adottiva colpita da ictus.
    Maria dunque torna a Soreni e fa quello che deve fare con devozione filiale, ma il tempo della fine è così lontano a venire, nonostante le pietose condizioni della vecchia e le previsioni del medico, che la ragazza comprende esserci qualcosa che impedisce il compimento di quella esistenza: la donna non può andarsene finché il fratello del giovane ucciso dalla vecchia non l'avrà perdonata.
    E infatti così sarà. Quel ragazzo che prima l'odiava, avendo finalmente compreso il desiderio di morte del fratello invalido, saprà liberare la vecchia dal suo senso di colpa. Ma anche Maria si riconcilierà con quella donna che aveva giudicato male senza avere capito le profonde ragioni che l'animavano. Pronta anche lei a finirla con un cuscino si accorgerà che se n'è appena andata dopo l'abbraccio ed il perdono del suo amico.
    Storia forte ed intensa, come siamo abituati a ritenere i sardi e le loro intime passioni. Ad essa si accompagna una lingua particolare, a volte intraducibile e comunque di non immediata comprensione nei suoi giri di parole, metafore e similitudini che sottendono visioni del mondo e principi di saggezza che solo chi appartiene a quella cultura può intendere fino in fondo.
    Michela Murgia, un poco alla volta ce ne fa parte, attraverso i riti e le usanze della vita e della morte, la festosità dei matrimoni e la cura della loro preparazione, i cibi e le loro valenze simboliche, i ritmi della natura ed i lavori nei campi, dove a decidere se è ora di vendemmiare è un cieco che annusa l'aria ed il vento e dove pochi metri di muro spostati per accogliere una “fattura” sono all'origine di una tragedia inarrestabile.
    E' sempre bello imparare qualcosa di nuovo o comunque riuscire a comprenderlo e definirlo meglio, come ad esempio la presenza delle prefiche, donne che piangono e si disperano per tutto il tempo del funerale per esprimere quasi in modo istituzionale la solidarietà nel dolore, oppure le porte delle case aperte nella notte dei morti con le offerte di cibo sul tavolo, tese a propiziarsi quei fantasmi che vagano silenziosi e dai quali ci si vuole proteggere, o i grandi preparativi per le cerimonie nuziali, in cui il pane, quel pane miseramente rotto (e rattoppato) da Maria mentre si guarda allo specchio, è emblema di vita, di gioia e di prosperità…, e ancora gli echi lontani di quella guerra sul Piave per questioni ignote ai giovani contadini delle isole che nulla sanno del continente, se non che dovranno morire o tornare storpi, come il marito dell'accabadora, riflesso nel destino di Nicola…
    Ma l'autrice non sa solo le cose della sua terra e della sua lingua aspra ed assoluta con le sue feroci sentenze, bensì si muove agilmente anche nella più nuova ed articolata lingua del continente, quella che suppongo abbia conosciuto con le avide letture dei grandi autori classici, dalla cui frequentazione deve aver appreso il piacere di giocare con le parole, nelle infinite possibilità delle figure retoriche, usate con destrezza e spesso poeticamente.
    Un'autrice da riproporre dunque prima o poi, anche per il suo impegno civile, come da proporre sarebbe un incontro pubblico su questa recente normativa sul fine-vita, che riguarda tutti, anche se preferiamo non pensarci…

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