Il mio oriente
Il mio oriente (Schopenhaur)
Tratto da: "E Schopenhauer incontrò Buddha di Franco Marcoaldi – 28/05/2007"
Fonte: La Repubblica [scheda fonte]
La tradizione vuole che il principe Siddhartha Gautama (poi Buddha: il risvegliato), dopo aver vissuto una gioventù dorata, tra mille donne e mollezze d´ogni genere, ebbe la ventura di incontrare la sofferenza sotto le sembianze successive di un mendicante, un malato, un vecchio e un morto. Bastò questo perché il giovane Siddhartha abbandonasse agi e ricchezze e concentrasse tutte le sue forze sulla soluzione di un unico, immenso problema: come sradicare il dolore, che, a suo dire, nasce dalla continua sete dell´Io, destinata inevitabilmente alla frustrazione.
Il mio Oriente è un intarsio di testi, «tratti dal mare magnum delle carte manoscritte» ed egregiamente curati da Giovanni Gurisatti per l´editore Adelphi (pagg. 225 , euro 11), che ci consentono di seguire passo passo il viaggio di avvicinamento a un mondo che sin lì la filosofia europea aveva poco o punto considerato. Del resto, il medesimo vizio di arroganza culturale ha finito per marcare una parte considerevole della stessa filosofia europea novecentesca, come di recente ha ricordato Giangiorgio Pasqualotto nella sua introduzione all´opera del filosofo giapponese Nishida Kitaro, Uno studio sul bene (Bollati Boringhieri). Basti, per tutti, il nome di Heidegger, il quale, mentre propugnava «l´ascolto del Linguaggio», in un "eloquente inciso" negava l´esistenza di un vero pensiero filosofico extra-occidentale, tanto in Cina quanto in India.
Ma torniamo al nostro Schopenhauer, che, al contrario – proprio nel momento di massima fortuna di Hegel, altro campione dell´eurocentrismo filosofico – fece da battistrada a un atteggiamento opposto: sorpreso com´era dalla «prodigiosa corrispondenza» del proprio pensiero con quello indiano e perciò stesso convinto che l´Oriente disponesse di una marcia in più. Anche nei confronti dei maestri occidentali a lui più prossimi: «Se si va alla radice dei fatti, appare evidente che Meister Eckhart e Sakyamuni insegnano la stessa cosa, con la differenza che il primo non può e non sa esprimere i propri pensieri con la stessa immediatezza del secondo, trovandosi invece obbligato a tradurli nella lingua e nella mitologia del Cristianesimo».
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Il cristianesimo che affascina Schopenhauer è quello che conserva «sangue indiano» nelle vene, mentre al contrario il suo entusiasmo nei confronti della tradizione orientale è pressoché assoluto. Due punti, in particolare, lo riconfermano nel sentimento di affinità: l´antiteismo («la parola "Dio" mi risulta così sgradevole in quanto trasferisce sempre all´esterno ciò che è interiore») e un pessimismo radicale, senza remissione: la vita è «una strada sbagliata da cui dobbiamo tornare indietro».
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Questo «anacoreta del pensiero puro», finisce così per dimenticare il tratto fortemente empirico del buddhismo. E´ il Buddha stesso a dire: «come si saggia l´oro sfregandolo, spezzandolo e fondendolo, così fatevi un giudizio sulla mia parola». E lo dice perché la cosa che più gli sta a cuore è la concreta applicazione del suo insegnamento: «un superamento della sofferenza nella vita e non fuori di essa», attraverso il riconoscimento dell´inconsistenza e dell´impermanenza[1] del mondo dei sensi: mondo vacuo perché strutturato da elementi interdipendenti privi di natura propria. Solo così sarà possibile raggiungere quello stato neutro, quel vuoto da cui discendono muta contemplazione, apatia perfetta, felicità.
[1] Anitya, "impermanenza", è un termine sanscrito che indica uno dei tre aspetti fondamentali dell'esistenza nella dottrina canonica del buddhismo, che sono:
· l'impermanenza o cambiamento o divenire (anitya);
· la sofferenza o l'insoddisfacibilità connaturata alle cose mondane (duḥkha);
· il non Sé o l'insostanzialità della personalità o l'inesistenza di un'anima incorruttibile (anātman).
Insieme queste tre caratteristiche fondamentali dell'esistenza, della vita di ogni essere senziente, formano la base causale della dottrina delle Quattro Nobili Verità e quindi della ricerca spirituale buddhista, consistente nella vita ascetica per i membri della comunità monastica, e nella coltivazione del Nobile Ottuplice Sentiero e dei precetti buddhisti per tutti i praticanti buddhisti: monaci, monache, laici e laiche, che costituiscono la tradizionale quadripartizione della società buddhista.