Tanja Massimi 24 febbraio 2017 – intervista, contributo audio e video
Piccola intervista a Tanja Massimi in occasione della presentazione del suo libro “Benvenuta ad Alcatraz, prof! del 24 febbraio 2017 in concomitanza con “M’illumino di meno” organizzata da Caterpillar.
D. Come è nata la tua esperienza di insegnamento presso la Casa circondariale di massima sicurezza di Fossombrone?
R. È nata per caso anche se come dice la tartaruga di Kung Fu Panda il caso non esiste. Non me l’aspettavo anche perché< avevo il terrore di entrare in una simile struttura, non ero quindi una che avevo programmato e poi ho detto era una esperienza che non avrei voluto mai fare.
Un bel giorno mi arriva una telefonata dalla segreteria della scuola di Lucrezia dove una segretaria mi chiede se ero pronta ad affrontare una supplenza presso la casa di reclusione di massima sicurezza di Fossombrone, io in quel periodo non avevo un lavoro e quindi ho preso un bel respiro e ho detto si!, lo accetto.
D. Quali progetti hai fatto?
R. Inizialmente come supplente, entrare lì dentro è disorientante perché nessuno mi aveva detto cosa dovevo fare, come mi dovevo comportare, quali vesti mettere, ecc. .Il primo impatto è stata la parte più difficile di tutto il periodo di supplenza. Verso la fine, quando ormai mancava poco al termine, portai ai miei “alunni” una specie di eredità, come una cosa che io volevo lasciare essendo sicura che non li avrei più visti (come difatti fu), una poesia famosissima di Rudyared Kipling “se” oppure lettera al figlio). Inizia con: se riuscirai ad essere calmo quando tutti gli altri intorno a te la stanno perdendo, se riuscirai … e continua sempre con un inizio di questo tipo. È praticamente un inno alla vita, sono i consigli di un padre per dire al figlio come fare per diventare un vero uomo, come fare per distinguere il bene dal male.
Volevo lasciare loro qualche cosa, quello che mi colpì è che leggendo insieme a loro venne fuori che questo pensare, anche se la poesia era semplicissima, non erano capaci di cogliere il significato di queste frasi. Non avevano la capacità di cogliere il messaggio che veniva dato, mi accorsi anche della grande sete che avevano di imparare perché erano cresciuti sentendo sempre due litanie; sei stupido, non capisci niente andrai a finire in galera. Avevo capito che loro avrebbero apprezzato moltissimo la lettura, un cammino per cogliere che erano, di fare un incontro con se stessi.
Quello che ho messo in piedi è stato un progetto di lettura “Leggere per vivere”, sono stati letti 5/6 libri e ognuno di questi affrontava una tematica precisa che andava a toccare i cuori e i destini di questi “allievi”. Il progetto è durato 5 anni.
D. Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?
R. Per caso, non avevo in mente di farlo. Ad un certo punto del mio percorso come volontaria, gli incontri erano talmente forti, talmente ricchi di umanità che andavano a scuotere delle cose dentro di me, andavano a scoprire le identità degli ”alunni” che frequentavano il corso, non potevo rimanere impassibile di ronte a quello che vedevo. Anche se apparentemente cercavo di rimanere fuori da questi vissuti, ad un certo punto del mio percorso mi ritrovai una mattina e da quella mattina per diverse mattine a svegliarmi con delle frasi intere che mi frullavano in testa, titoli di capitoli che erano come dei flash, venivano e io non potevo dare nulla. Dicevo passeranno e continuavano e non scrivevo ma più non scrivevo e più venivano fuori prepotentemente, ad un certo punto ho detto non ce la faccio più, mi devo mettere a scrivere.
D. Rifaresti oggi quella esperienza?
R. Si! assolutamente. Se dovessi avere una cattedra fissa, ora non l’ho ancora e forse non l’avrò, farò domanda esplicita per andare ad insegnare nella casa circondariale di Fossombrone.
Lo rifarei proprio, è proprio un mio desiderio.
Contributo audio. Lettura del brano finale del libro “Incitamento alla lettura”
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Contributo video da Teleskianto a cura di Mauro Zandri
[…] http://www.monteporziocultura.it/gdl/?p=796 […]
Tanja Massimi
Benvenuta ad Alcatraz, Prof!
(Un commento di Valeria G.)
La storia
Un’insegnante di lingue precaria e demotivata si ritrova suo malgrado, per bisogno, ad accettare una breve supplenza d’Inglese in un carcere di massima sicurezza: l’ultimo posto nel quale avrebbe voluto essere mandata.
Con apprensione e titubanza entra il primo giorno nella struttura penitenziaria registrandone mentalmente gli interminabili passaggi, attraverso cortili, corridoi lunghissimi, controlli, procedure burocratiche, cancellate, sorveglianti, pareti grigie ed anonime, rumori forti ed odori pregnanti…prima di giungere nell’angusta e sguarnita aula in cui si svolgerà la sua lezione.
Accompagnata da un collega dal comportamento non proprio esemplare si ritrova così, sola, di fronte ad individui che l’accolgono con sospetto e che fanno battute di umorismo nero per nulla incoraggianti. Le lezioni proseguono fra mille dubbi ed incertezze, finchè a poco a poco, le reciproche tensioni si allentano ed accade qualcosa d’insolito nella vita della protagonista, qualcosa che non si era mai verificato fuori, nelle scuole pubbliche, con ragazzi liberi di andarvi se e quando vogliono, che fanno ciò che desiderano e che considerano l’insegnamento un male non necessario e l’apprendimento uno sport inutile.
Inaspettatamente proprio lì, in carcere, nel luogo più abbietto e claustrofobico del mondo, ci sono persone che la rispettano, l’ascoltano, le usano riguardi e gentilezze e, soprattutto, le rimandano la certezza che ciò che sta facendo è qualcosa di buono.
Basta questo per rovesciare i termini di una relazione iniziata sotto il peso del pregiudizio.
E’ vero, si tratta di delinquenti incalliti, uomini adusi alla malvagità, che hanno ucciso e rubato, che hanno fatto parte di organizzazioni mafiose o compiuto crimini di guerra, eppure sono esseri umani capaci di riconoscere ciò che si agita nel suo cuore, di comprenderlo e di predisporsi a metterla a suo agio, a volte con la stessa tenerezza che potrebbero riservare alla propria madre.
Elena ne è profondamente colpita e concepisce l’idea che in loro ci sia una sorta di codice morale, forse formatosi proprio con la detenzione, una dignità di comportamento tanto inattesa quanto basilare per poter immaginare un progetto di recupero. Ciò che vede in loro è una volontà di riscatto sulla quale vale la pena di lavorare e che tanto somiglia a qualcosa che lei ha conosciuto.
Come uno specchio essi le rimandano lo stesso disagio che provò diversi anni addietro, quando dovette venire in Italia ed impararne la lingua. Infatti, pur essendo figlia di emigrati italiani, essendo nata a Basilea la sua lingua madre è stata il tedesco e dunque, quando la famiglia decise di rimpatriare, dovette inserirsi in un ambiente del tutto diverso, nuovo e quasi sconosciuto.
Ricorda la fatica di quel disadattamento. Aveva lasciato segni così profondi da spingerla a cercare, attraverso lo studio personale di testi di psicologia, letture di romanzi, corsi universitari di specializzazione, un modo per riuscire a capire chi fosse veramente, cosa fosse capace di fare e quale direzione imprimere alla propria vita.
Ora finalmente i conti tornano.
L’incontro con quei detenuti le fa ricontattare parti sofferenti della sua persona, ma adesso sa che tutto quel lavoro su di sè alla ricerca della propria identità non è stata una perdita di tempo. Come i libri hanno aiutato lei, così potranno anche aiutare quei ragazzi e quegli uomini non del tutto perduti o abbruttiti dentro.
Elena dunque elabora un progetto che chiama “Il viaggio come metafora della vita” e lo sottopone al vaglio della direzione carceraria, offrendosi di svolgere quell’incarico come volontaria. Dopo una lunga attesa riceve il nulla osta. Può iniziare quel percorso educativo inusuale. Le sue idee, per quanto innovative, sono state accolte. Non solo i carcerati ma anche coloro che li hanno in custodia le rimandano la loro stima ed il loro apprezzamento.
Elena comincia quello che sarà un percorso di crescita non solo per i suoi allievi ma anche per se stessa. Non avrà tuttavia nella sua classe le persone che aveva già conosciuto e sulle quali era stato improntato il progetto. Le vengono affidati altri detenuti, persone che hanno commesso reati minori e che usciranno dal carcere dopo periodi più brevi. Prima ancora di questi però le vengono assegnati immigrati di varia nazionalità a cui dovrà insegnare i rudimenti della lingua italiana.
Felice e delusa al tempo stesso, Elena è costretta ad incontrare una nuova umanità ed a costruire da capo relazioni di fiducia con uomini provenienti da ogni dove, che parlano lingue diverse l’uno dall’altro, con modi di rapportarsi e di esprimere la propria cultura che non ha mai visto o conosciuto prima.
Questa immersione obbligata nella diversità la destabilizza nuovamente riaccendendole paure e reazioni sgradevoli dimenticate, che non nasconde ed anzi manifesta arrivando tardi alle lezioni, proprio perchè ciò che vorrebbe è solo fuggire. Con grande sforzo di volontà si ricompone e riesce a dominare la sua ansia cercando l’aiuto dei sorveglianti che la proteggono e la tranquillizzano.
Ai loro occhi lei è come una fatina buona di cui non capiscono l’intima motivazione ad essere così generosa con persone che non sono certo state buone con gli altri e con le quali, per necessità economica, essi devono condividere la segregazione per gran parte della giornata.
“Ma perchè fa tutto questo? Anche oggi è venuta prof? Non era meglio se andava al mare?” così le chiedono.
Ma Elena è una guerriera e sa che quella è un’ulteriore prova da superare nel suo viaggio verso la libertà interiore dalla paura.
Rientra dunque in se stessa, scoprendo quanta viva e varia umanità sia costretta a condividere quegli spazi angusti, cosa questa che, per certi versi, rende il carcere luogo deputato per eccellenza all’integrazione.
Se i detenuti di lungo corso, abituati a continui trasferimenti da un penitenziario all’altro, hanno sviluppato le strategie dell’adattamento e la forza interiore per convivere con gli altri al minimo dello stress, quelli di più recente acquisizione, giovani spacciatori o tossici turbolenti ed irrequieti, hanno ancora tutto da imparare.
Ciò nonostante, superata la paura iniziale e la reciproca incomprensione, anche con costoro diventa facile instaurare relazioni equilibrate. Perchè il punto è proprio questo: imparare a stare insieme senza aggredirsi, senza sovrapporsi, nel rispetto dell’altro, della sua storia, dei suoi stessi errori.
Anche stavolta i risultati sono eccellenti e le danno fiducia. Gli allievi accettano ed imparano le nuove regole della convivenza e della relazione ed il lavoro procede in modo proficuo per entrambi, sia nel corso di alfabetizzazione, sia in quello di lettura.
I testi proposti in modo mirato e discussi insieme aprono le menti di quei ragazzi, alcuni dei quali dichiarano di non aver mai pensato così tanto. Elena fornisce continue sollecitazioni al confronto rispetto alle tematiche suggerite dai testi, confronto che solleva le pesanti cortine di nebbia calate su passati turbolenti, rimossi o quiescenti, che vengono riesumati, raccontati e riesaminati alla luce di una nuova consapevolezza.
Emergono pentimenti, sensi di colpa, desiderio di riscatto, autodenigrazione per aver buttato via la propria vita. Vengono comprese le ragioni profonde che hanno spinto a delinquere, accesa la speranza del cambiamento, trovato nuovi equilibri personali.
Leggere, conoscere le vite di altri…non dà solo il conforto di sapere che il dolore, la rabbia, l’errore, il vagabondaggio della mente che non trova appigli e porti sicuri è comune ad ogni essere umano, ma spinge anche a pensare, e quindi a formare una coscienza di sè, delle proprie azioni e delle proprie responsabilità verso se stessi e verso il mondo, fattori questi indispensabili per relazioni umane armoniose ed equilibrate.
Ora quei ragazzi sanno qualcosa in più di se stessi, anche se il problema di fondo resta: sapranno servirsi di tutto questo una volta fuori? Gli sarà permesso farlo?
Messa alle strette da quest’ennesima domanda Elena racconta la storia di Matteo, un suo amico che, pur portando i segni indelebili della prigione, è riuscito a recuperare la propria dignità ed a trovare un posto nel mondo di valore pari a quello di tanti altri, grazie anche all’aiuto del cappellano del carcere, lo stesso presso il quale trova conforto anche Elena, nei suoi momenti di crisi.
Dopo 5 anni di volontariato il suo viaggio sta per concludersi. Lasciarsi è triste per tutti. Ormai i rapporti sono diventati più che amichevoli, c’è affetto e reciproca riconoscenza, perchè l’esperienza ha arricchito entrambi, come accade quando i rapporti sono autentici.
Ma per Elena è ormai giunto il momento di mettere ordine nella propria vita e fare quel passo importante e già preannunciato: un viaggio ancora più grande per congiungersi col suo compagno che vive in Texas.
L’evento tanto atteso e desiderato non è scevro di dubbi e preoccupazioni. E’ infatti un rapporto basato sull’incertezza e sbilanciato: fin’ora è stata sempre lei a dare di più. – Basta una forte attrazione per costruire una vita insieme? – Si chiede Elena.
E’ tutto pronto per la partenza, ma sogni inquietanti la mettono in guardia da se stessa, così come le parole del comandante, uomo navigato e forse più sensibile di quanto mostri la sua divisa, il quale, facendole gli auguri, le suggerisce di non appoggiarsi al vento nella sua ricerca della felicità.
E poi ci sono le lettere che le hanno consegnato i ragazzi il giorno dell’ultima lezione, troppo toccanti per leggerle tutte, per non strapparle, così come si fa con qualcosa che tiene ancorati ed impedisce di salpare.
Finale sospeso dunque, che forse preannuncia un ritorno, se non una stessa rinuncia a partire…o forse un’altra pubblicazione. Chissà…
Una riflessione
Questo di Tanja Massimi è un libro basato su un’esperienza personale e quindi quasi totalmente vero, sia nei fatti che nelle intenzioni.
Un’opera prima e romanzo di formazione, come si dice nel linguaggio editoriale, il quale, pur se non perfetto sul piano strutturale e, ahimè, con qualche errore di stampa e d’ortografia (del resto la stampa è stata gratuita e l’autrice, anche se bilingue, è soprattutto germanista), presenta sequenze di stile classico davvero impeccabili, il che denota un’indubbia propensione alla narrazione ed una solida formazione linguistica e letteraria, a cui si aggiunge sia un forte desiderio di affermazione personale, sia dei valori etici in cui crede.
Non a caso i temi sollevati nel libro riguardano alcune delle domande fondamentali dell’esistenza: cosa induce l’essere umano a compiere gesti distruttivi ed autolesivi? Come affrontare il male di vivere? E’ possibile un’esistenza armoniosa o almeno serena, se non felice?
Stando con i detenuti Elena comprende che molto spesso certe scelte sono obbligate e che non tutti sono capaci di sottrarsi all’influenza negativa di ambienti sociali altamente problematici o a quella di ambienti famigliari anaffettivi e già di per sè compromessi sul piano educativo.
Se il carcere è il luogo dove si sconta la pena per i propri errori, per le trasgressioni verso le regole della comune e civile convivenza, deve però essere anche il luogo di una possibile redenzione. Cosa questa che non si ottiene approcciandosi a colui che delinque con il distacco di chi si crede al di sopra dell’uomo che ha di fronte. Forse è solo un caso che non si siano fatti gli stessi errori. Dunque è il pregiudizio quello che deve essere prima di tutto abbattuto, quel pregiudizio che entra in gioco ogni volta che ci si relaziona con qualcuno che avvertiamo diverso da noi.
Se si ha intenzione di instaurare una relazione d’aiuto autentica occorre essere disposti a mettersi in discussione, cioè a lasciarci modificare a nostra volta da quel contatto empatico sospendendo ogni giudizio, e pronti ad imparare cose nuove anche di noi stessi.
Si è già detto di come i libri, la letterarura, la conoscenza di altre modalità d’esistenza possono fungere da tramite per la scoperta della propria interiorità, dei propri talenti e delle possibili vie di riscatto personale.
Ora però viene anche da chiedersi se tutto questo, anzichè in carcere, non abbia ancor più senso farlo fuori, e quindi prima di finirvi, cioè in quei luoghi estremi di questa nostra Italia martoriata dove droghe ed armi, violenza e rapine, sono il pane quotidiano di tanti ragazzi che non hanno scelta.
Non solo. Occorre porsi anche un’altra domanda e cioè se tali così dette “devianze”, oltre che comprensibili, non siano in parte anche giustificabili.
Non si tratta spesso, infatti, di veri e propri atti d’accusa e di denuncia contro istituzioni assenti o piegate ad un potere che detta regole ingiuste, buone quasi sempre solo a farlo perpetuare proprio attraverso l’esclusione di larghe fette d’umanità?
Che fine farebbero mafia e camorra se lo Stato mettesse in campo le sue forze migliori per garantire a tutti istruzione, lavoro, assistenza, salari equi, vite dignitose? E perchè questo non avviene?
Qualche giorno ho colto una telefonata per strada. I telefonini non aiutano certo la privacy. Una ragazza sui trent’anni stava dicendo a qualcuno dall’altro capo del filo: “Io non ho voglia di lavorare. No, non voglio lavorare. Perchè devo farmi il culo per guadagnare in una vita quello che un altro guadagna in un anno?” C’è qualcosa di sbagliato in questo ragionamento?
Non sapremo mai come quella ragazza pensava di procurarsi di che vivere. Per dovere di cronaca, va anche detto che il suo accento era decisamente campano, il che forse non è proprio un caso, e aggiungere, non solo per fugare ogni accusa di pregiudizio, che questo comincia ad essere un sentimento molto diffuso anche al Nord. C’è da stupirsi che le carceri siano piene?
Una persona che vive ai margini e alla quale manca la casa, il pane, il lavoro, non ha chance e ci vorrebbero migliaia di Barbiane e di Don Milani per sperare che ai suoi figli sia concesso un giorno di scegliere fra bene e male.
Quale forma dovrebbere assumere un penitenziario per essere davvero luogo di rieducazione, e quanto è lontano da questa forma oggi che alla popolazione carceraria vengono negati perfino i diritti fondamentali, primo fra tutti quello allo spazio vitale, cosa questa che l’ Europa inutilmente ci contesta?
Prescrizioni, depenalizzazione di reati, indulti o amnistie non sono risposte serie al sovrafollamento carcerario!
Al contrario, azioni come quelle della protagonista di questo libro, alias Tanja Massimi, sono tanto rare quanto auspicabili.
In alcune carceri per fortuna si riesce a fare qualche attività culturale, come il teatro, il quale permette l’uscita dei reclusi per la rappresentazione, o attività formative e lavorative grazie alle quali è possibile accedere a qualche forma di remunerazione.
Interventi, questi, che ridanno dignità e fiducia alla persona, ma la domanda fondamentale resta: E dopo? Dopo anche la migliore delle detenzioni cosa si farà fuori? Che possibilità di inserimento, di realizzazione, di serenità si possono conquistare in un mondo sempre più allo sbando, che non ha risposte neppure per quelli che fuori ci sono da sempre?
Forse l’aver acquisito attraverso un programma rieducativo una buona consapevolezza di sè, una specifica professionalità ed alcune regole basilari della relazione umana, anche se non danno risultati nell’immediato, possono almeno far capire se ci si sta avviando nuovamente verso strade sbagliate, permettendo stavolta di scegliere e non di soggiacere ad impulsi o coercizioni.
Spesso però la paura di uscire è tale che si preferirebbe continuare a stare in quella sorta di utero che priva, è vero, di ogni libertà, ma protegge anche e garantisce il pane.
D’altronde è proprio questo il rischio dell’istituzionalizzazione: creare passività, rinuncia, mancanza di speranza, appiattimento della personalità, aspetti della reclusione che solo progetti riabilitativi ed educativi possono esorcizzare.
Dunque c’è solo da augurarsi che essi possano ripetersi, diffondersi a macchia d’olio fino a diventare la norma, tanto nella realtà carceraria quanto fuori, nelle scuole, nelle biblioteche, nei centri sociali, attraverso insegnanti ed educatori veramente motivati e capaci di orientare eticamente i mille attori di una società che, per funzionare al meglio ed essere giusta, deve essere costruita collettivamente.
E’ questo il campo di studio e d’intervento di quello che un tempo veniva chiamato “l’intellettuale organico”, il quale fu appannaggio non solo della prima sinistra storica ma anche di una certa classe imprenditoriale illuminata. Mi riferisco ad Olivetti, figura di spicco di un passato migliore, il quale comprese che il lavoratore è prima di tutto un essere umano.
Dunque ciò che era richiesto all’intellettuale “aziendale”, così come lo aveva battezzato, era di immaginare e creare situazioni e modalità di gestione della fabbrica tali da permettere il soddisfacimento di tutte le componenti della persona impegnata nella produzione, con tempi e luoghi per la lettura e lo svago, l’asilo per i piccoli, i momenti di aggregazione e di partecipazione responsabile alla vita della fabbrica.
Come si vede siamo ben lontani da quel modello così avanguardistico. Di esso non è rimasta traccia se non nel ricordo di quanti sperano ancora in uno sviluppo “sosteniblie”
Quando una civiltà sta decadendo e tutto sembra precipitare verso un ingovernabile caos, che si chiamino intellettuali o guide “spirituali” o modelli di riferimento, ciò che occorre è la presenza di persone illuminate pronte ad impegnarsi, attraverso azioni mirate ed intelligenti, a traghettarci fuori dal fango di queste sabbie mobili. Perciò occorre studiare, pensare, discutere insieme e desiderare che quel qualcuno si renda visibile e che, con il sostegno di tutti, possa farci trovare, o forse ritrovare, la rotta o, meglio ancora, un modo nuovo di stare insieme.
(Per chi desiderasse approfondire l’argomento segnalo un articolo, pubblicato sul quotidiano l’Avvenire il 15 febbraio 2017 a firma Viviana Daloiso, dal titolo “Carceri, le celle aperte di Bollate”, un bell’esempio di recupero nel segno di una integrazione possibile tra istituzione carceraria e realtà produttiva, pena e riscatto sociale.