9 settembre incontro con l’autore
Un dialogo tra due bambini da sopra a sotto il mare: Leonardo in una nave da crociera e Akanke dal fondo del Mediterraneo.
Questo lo scenario in cui si svolge la storia raccontata da Mauro Riccioni, nel suo primo romanzo da oggi disponibile online e nelle principali librerie delle Marche: "Lettera di una bambina in fondo al mare".
Akanke è un’africana: ha conosciuto la miseria, sopportato lo sfruttamento, sfidato il deserto e affrontato la traversata del Mare Nostrum a bordo di una carretta del mare. Lì ha trovato la morte.
Narra questa storia a Leonardo, giovane occidentale in vacanza, per spingerlo a pensare e, magari, a raccontare al mondo una silenziosa tragedia che ogni giorno si ripete a poche miglia marittime dalla nostra quotidianità.
E Leonardo saprà rispondere ad Akanke.
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Mauro Riccioni è un avvocato, appassionato di politica e archeologia, amante della lettura e della scrittura, cultore della bellezza e nemico delle ingiustizie.
Nelle Marche, dove vive e lavora, ha ricoperto cariche politiche di vertice e amministrato diversi enti locali. Tra questi il Comune di Gagliole, dove ha rinunciato all’indennità di Sindaco devolvendola ai servizi sociali del piccolo Comune, in un’esperienza di cui si è parlato molto che ha raccontato nel libro Il Sindaco Gratis (Dissensi, 2016).
"Lettera di una bambina in fondo al mare" è il suo romanzo di esordio nella scrittura narrativa. Il tema della solidarietà verso i più deboli quello che lo anima da una vita.
Appunti incontro con Alessandro Moscè
I MATTI DI UNA VOLTA
Le case dai tetti rossi (Fandango, 2022) di Alessandro Moscè
30 luglio 2022 CI.B.O.
Alessandro Moscè
Prima di tutto voglio dire che ho trovato Monte Porzio davvero accogliente. Sia da un punto di vista architettonico che urbanistico è un paese ben tenuto, con un centro storico curato e una piazzetta circolare straordinaria, come quelle di una volta. Non è affatto scontato che in un piccolo centro si organizzino degli incontri con l’autore e si possano presentare libri, cose che vi assicuro sono difficili anche a Roma e a Milano.
Sapete bene che gli italiani sono refrattari alla lettura, soprattutto di testi letterari, che evidentemente sono impegnativi più dei libri à la page scritti da calciatori, cabarettisti, attori ecc. Mi occupo di letteratura da molti anni e ho rinunciato a fare l’avvocato, anche se sono laureato in Giurisprudenza, proprio per dedicarmi alla scrittura.
Faccio il caporedattore in un giornale di provincia e scrivo come freelance in vari quotidiani, quali “Il Foglio”, dove recensisco libri specie di poesia. Ho pubblicato volumi di poesia, di narrativa e di critica letteraria. Le case dai tetti rossi è a tutti gli effetti un romanzo, che però non nasce dalla fiction, ma da un luogo evocativo realmente esistito: l’ex manicomio di Ancona.
David Guanciarossa
Prima di presentare il libro di Alessandro Moscè mi sono informato sulla gestione dei vecchi manicomi di cui non si conosce quasi nulla. Ho letto un saggio del docente universitario Roberto Vecchiarelli, Cronache dal manicomio, ambientato nell’ex manicomio di Pesaro: un saggio, non un’opera di fantasia, abbastanza impegnativo, con racconti complessi.
Ho appreso che la Legge Giolitti del 1904 regolarizzava gli ingressi e le uscite dal manicomio. Legge che è rimasta valida fino all’avvento della Legge Basaglia del 1980.
Come si entrava in manicomio? Era abbastanza semplice: la segnalazione di un medico, di un sindaco o di un agente di polizia, in generale di un funzionario pubblico, dichiarava la non stabilità mentale o il pericolo per sé e per gli altri del soggetto indicato, consentendo così che quest’ultimo venisse accolto.
Ben presto, in manicomio, il malcapitato diventava solo un numero. Si usciva “orizzontalmente”. Solo se si riscontravano dei miglioramenti e “fuori” c’erano parenti che potevano ospitare il manicomiato, il “miracolo” poteva avvenire, altrimenti si era condannati tutta la vita all’interno di quelle orrende strutture.
Entravano in manicomio gli omosessuali, gli alcolisti, gli epilettici, la donna che “faceva la preziosa a letto”, chi era affetto da malattie oncologiche.
Mi sono ricordato cha nel nostro gruppo di lettura avevamo letto un romanzo del pesarese Paolo Teobaldi: Il mio manicomio. Rammentavo poco di questo testo, ma imbattendomi nel saggio di Vecchiarelli mi sono tornate in mente le due porte del manicomio di Pesaro, che Teobaldi descrive molto bene: “la porta del morto” e la “trappola” o “la porta del matto”. Una porta nascosta era dipinta come il muro. Chi entrava in questa porta era giudicato un “matto pericoloso”. Veniva condotto con la carrozza lungo la via e spesso si agitava. I familiari fingevano di assecondarlo, gli facevano fare qualche passo e quando si trovavano vicino alla porta lo spingevano dentro. Gli infermieri lo prendevano in custodia mettendogli la camicia di forza. Il manicomio era una prigione a tutti gli effetti, come si può ben capire.
Alessandro Moscè
Le case dai tetti rossi: perché questo titolo, mi chiedete? Da Posatora, che è un quartiere di Ancona posizionato in alto, se negli anni Sessanta e Settanta si osservava la città verso il quartiere del Piano, si vedevano degli stabili che sembravano casermoni, rigorosamente con i tetti rossi.
Si era soliti dire ai bambini: “Se non fai il bravo ti mandiamo ai tetti rossi”. I miei nonni materni abitavano in corso Carlo Alberto, a pochi passi dall’ex manicomio di Ancona, appunto dalle “case dai tetti rossi”. Sono stato sempre suggestionato da questo luogo di contenzione perché non capivo il significato della reclusione e perché mi dicevano di stare alla larga dal cancello di via Cristoforo Colombo, di non fissare i pazienti, chi era oltre quelle inferriate, insomma di girare al largo.
Nell’estate del 1975 ero a passeggio con nonna Altera e non c’erano tutti gli agglomerati di adesso. Rimasi colpito da persone che gironzolavano tra i padiglioni e un porticato, i quali avevano, stranamente, degli indumenti molto più lunghi rispetto alla lunghezza delle braccia. Ciondolavano e la loro postura mi faceva sorridere. Da adulto ho capito che quella specie di pigiamoni non erano altro che camicie di forza. Se il matto dava in escandescenza bastava legare le estremità dietro la schiena.
Per scrivere il romanzo ho compiuto un lavoro preparatorio di due anni. Non sono né un medico né uno psichiatra. Se si trattano taluni argomenti è necessario conoscere le basi del lavoro. Ho letto testi di psichiatria e contattato un amico psichiatra, il primo a leggere Le case dai tetti rossi e a darmi i consigli necessari. Il manicomio di Ancona veniva considerato un ricettacolo da parte dei cittadini, ed era così anche nelle altre strutture, in tutta Italia.
Il romanzo non vuole mettere l’accento sul manicomio per quello che è stato, tanto che affronta soprattutto i grandi cambiamenti della psichiatria. Non l’avrei scritto se i manicomi non fossero stati chiusi, se quei cancelli non fossero stati aperti una volta per tutte.
Il professor Guido Lazzari non è altro che la trasfigurazione del dottor Emilio Mancini, per tanti anni il direttore del manicomio di Ancona. Si rese conto che se le persone parlavano tra loro, se riuscivano a comunicare i sentimenti, se lavoravano continuativamente nell’atelier, se d’estate camminavano sulla spiaggia di Palombina, stavano meglio. L’aprire questa città separata da tutto il resto di Ancona significava fare un notevole passo in avanti. Le nuove disposizioni le aveva già pianificate il grande psichiatra Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia. Ad un certo punto, con un colpo di genio, Lazzari dice che le pareti del manicomio si debbono tinteggiare, che quei colori grigi non vanno bene, che bisogna “avvalersi” di colori caldi.
Le finestre, anche se avevano le inferriate, dovevano rimanere aperte. Venne pretesa la massima attenzione all’igiene personale. Non più camerate da quindici, venti persone, ma stanze con al massimo sei individui. Il personaggio al quale sono più affezionato, il giardiniere Arduino, intuisce che anche le piante e i fiori sono decorazioni utili a migliorare l’umore. Regala mazzi di rose alle donne, appositamente confezionate, lasciandole in fondo ai loro letti.
David Guangiarossa
Tra i protagonisti del romanzo cito l’intransigente caposala suor Germana; Nazzareno che raccontava le barzellette ed era un balsamo per tutti i ricoverati; l’uomo giraffa che temeva di essere inseguito dai batteri; Carlo che voleva assomigliare al pirata Sandokan; Franca che sognava i nazisti, di notte, avanzare marciando verso le camerate e che si proteggeva ammassando materassi e mobili dietro la porta; Adele che ricordava di aver intravisto Mussolini a Fabriano, in incognito; Giordano che tifava per la squadra del Napoli e si immedesimava nel suo capitano Antonio Juliano. Sono tutti realmente esistiti? L’impressione è che la sua scrittura voglia in qualche modo redimere i pazienti, salvarli.
Alessandro Moscè
I protagonisti del romanzo sono il trasmutamento di persone che vivevano nei manicomi italiani. È vero, in un certo senso c’è questo tentativo di aprire un orizzonte, visto che si intuiva prima della promulgazione della Legge Basaglia che fosse necessario ridare identità e dignità ai ricoverati nei manicomi. Ritengo questa legge la più grande conquista sociale dell’Italia del secondo dopoguerra, come lo furono anche i referendum sul divorzio e sull’aborto e lo Statuto dei Lavoratori.
Gruppo di lettura – incontro 20 settembre
Trama
Io mi chiamo Mina e mi piacciono molte cose: denti di leone, tonno in scatola, libri, ricotta, lucciole e soprattutto i draghi, e le fiamme che escono dalla loro bocca. I draghi nessuno li uccide, sono fortissimi e per questo io mi sento una di loro, infatti la prima volta che ho visto Lorenzo non mi sono neanche spaventata. Lui era infuriato, urlava forte e mi ha lanciato un'occhiataccia. Ma io lo so che era solo molto arrabbiato, come me. Stare qui non ci piace per niente e questo è stato un ottimo motivo per diventare amici. Insieme facciamo sul serio. Siamo davvero due brutti ceffi e di fronte a noi se la danno tutti a gambe, perfino la paura. Il nostro mondo ha le regole che abbiamo deciso: ci sono mostri dentro i laghi, gnomi che aspettano il diploma di magia, gocce d'acqua che diventano animali fantastici e licantropi che esistono davvero. Chi non ci crede noi non lo ascoltiamo perché nonostante quello che dicono gli adulti, questa non è immaginazione. Questa è la realtà. Quella migliore per mettere a punto il nostro piano segreto. Un piano di fuga coi fiocchi. Perché io e Lorenzo dobbiamo scappare. Andarcene via dall'ospedale dentro cui viviamo ormai da troppo tempo e raggiungere il mondo fuori. Perché quando rivedremo il cielo, ogni cosa cambierà. Perché quando siamo insieme non ci batte nessuno.
Ci sono esordi che risuonano nel cuore di chi li legge per molto tempo. È così per La bambina sputa fuoco. Noi siamo Mina quando ascoltiamo il bambino che abbiamo dentro. Quando lasciamo che la fantasia ci faccia da guida. Quando ci fidiamo di un'amicizia vera, che non ci fa sentire soli. Tratto dall'esperienza dell'autrice, è un romanzo che insegna come il potere dell'immaginazione possa tirarci sempre fuori dai guai.
Recensione
Questo è un romanzo d'esordio che, grazie al passa parola, è diventato un caso editoriale.
La storia è semplice, una di quelle che non vorremmo mai sentire, ma che piomba come un macigno sul petto in modo improvviso. Mina inizia a sentire “gli spilli” come lei stessa li definisce e dopo una serie di ricoveri d’urgenza in ospedale, le viene diagnosticato un brutto male. La sua giovane età non le permette di capire a pieno cosa sta accadendo, né l’impatto sconvolgente che avrà per lei e per la sua famiglia. Come lei anche Lorenzo, che diventerà suo grande amico, prova tanti sentimenti ed emozioni contrastanti. Insieme metteranno in piedi un piano di fuga con i fiocchi, studiato talmente bene da essere scoperti ancor prima di varcare la porta d’uscita dell’ospedale. La loro è voglia di assaporare la libertà, la normalità e la spensieratezza della loro età che a causa della malattia non possono vivere.
Lo stile di scrittura risulta veloce e semplice, il linguaggio è infatti tipico di una bambina dell’età della protagonista, il che fa ancora di più immedesimare nella storia. I discorsi diretti non presentano punteggiature, si susseguono in modo naturale e spontaneo alla parte narrativa creando quasi un fiume in piena di parole. Una valanga che travolge il lettore, trasportandolo in un'altra dimensione al fianco di Mina, durante le visite, gli esami e la degenza.
Un libro commovente, sconvolgente e vero. Una storia vera, quella della scrittrice, che ha sentito l’esigenza di condividere i giorni più difficili della sua vita. Quelli legati alla scoperta della malattia, che l’ha tenuta in ospedale a lungo. Giulia Binando Melis in questo libro d’esordio mette una parte importante del suo passato, dando voce alla bambina che è stata. Lo ha fatto facendo al lettore un regalo di inestimabile valore, se stessa e il proprio vissuto al servizio degli altri. Mettendosi a nudo nelle fragilità di un’esperienza che metterebbe in ginocchio l’uomo più valoroso, ma che lei ha dovuto vivere in così tenera età. Lo fa attraverso le parole di Mina, il cui nome è quello della sua vicina di camera in ospedale e lo fa con un linguaggio tipico di quell’età. Una ottima scelta che permette di rendere il lettore ancora più partecipe.
Un libro che, da clown dottore quale sono, mi ha fatto particolarmente emozionare, ma che consiglio a tutti coloro che, attraverso una storia vera, vogliono imparare a sperare e a creder nel poter dell'immaginazione. Una qualità che si tende a perdere mano mano che si cresce, ma che è in grado di aprire spiragli sorprendenti di luce in mezzo al buio.
Romanzo che mette in scena una amicizia tanto comune quanto straordinaria. Mina e Lorenzo si incrociano per la prima volta nei corridoi dell’ospedale, lui decisamente burbero e impertinente, lei scioccata ma incuriosita. Il destino comune che li lega a quelle quattro mura, a piantane e flebo, a medicine sempre diverse, a chemioterapie che lasciano ben poche forze addosso fa il resto. Sono insieme in quella battaglia, fianco a fianco.
Un romanzo che consiglio assolutamente e che non può far altro che arricchire.
Alcune note su Giulia Binando Melis
Giulia Binando Melis è laureata in Filosofia con una tesi sulla morte, giura di essere un tipo allegro. Di giorno realizza progetti narrativi come creativa freelance, di sera è una cantante piano bar; solitamente non fa lo sbaglio di invertire.
La libertà macchia il cappotto pubblicato da All Around, la casa editrice del giornalismo italiano, rappresenta per Antonello Loreto una prova di maturità superata a pieni voti.
Un grande romanzo necessita di due qualità: forza cognitiva e potenza immaginativa, più una spezia: la passione.
Cognizione, immaginazione, passione anche una sottile ironia e un sottofondo di leggerezza, di matrice calviniana, consentono al lettore di immergersi nelle pagine di Antonello Loreto.
Convincente la metafora del muro, asimmetrico come la vita, che rimbalza come la pallina da tennis colpita da Q (Quentin solo all’anagrafe) a metà strada tra il “giovane Holden” di Salinger e “l’Antoine Roquentin” di Sartre.
Questo ragazzo segnato dalla prematura scomparsa dei genitori, ristretto in una adolescenza con Nonna Faustina, sin troppo premurosa, tanto da apparire fuori luogo e, soprattutto con il “dadaista”, “Emilio Salgari” il pesce rosso; solo quest’ultimo, unitamente ad una playlist musicale, di tutto rispetto, a partire da How is your life today? dei Pocupine Tree, la racchetta da tennis acquistata da Cisalfa e i VHS degli incontri del suo mito preferito McEnroe riescono ad allietare Q.
Prima o poi a ciascuno di noi arriva il momento del cosiddetto turning point e “la svolta” arriva anche per il giovane Q.
Un colloquio di lavoro in Trentino, per un’occupazione piuttosto originale (sic): “custode di una malga a Paneveggio”, lo smuove dalle abitudini e dal palleggio sul muro e, per un breve tratto, anche dalla compagnia del “dadaista” l’inseparabile pesce rosso.
La svolta è nell’incontro con K ( Katiusha solo all’anagrafe), consonanti che si incontrano Q e K, per una coincidenza disegnata dal caso, ed è subito melodia.
Lo scrittore è riuscito a farmi accomodare nell’autobus dove avviene l’incontro amoroso e sono rimasto incuriosito ed attratto da questo incontro casuale.
Il romanzo sembra trasmetterci una verità: il caso è soltanto il punto di partenza non è l’entità che presiede ai nostri destini va provocato (la ricerca del posto di lavoro per Q). Si tratta di qualcosa di essenziale che ha il potere di farci scoprire l’amore e/o l’amicizia, incontrare l’altro per scoprire se stessi, questo è accaduto tra Q e K; l’incontro è Libertà.
Non voglio spoilerare oltre e il bello è davvero dappertutto, nascosto in ogni pagina da una scrittura accattivante; vi assicuro che specie alla fine non mancheranno i colpi di scena, tra sogno e realtà, tra assenze e presenze scorrono vite ed esistenze.
Buona lettura. (Vincenzo Candido Renna)
Incontro con l’autore – 17 luglio
Castelli da conquistare o da difendere, opere d'arte misteriose e terrificanti, città sommerse, amori capaci di far perdere tanto la testa quanto la pelle, creature mitologiche, dei iracondi e santi guerrieri: questi sono solo alcuni degli esplosivi ingredienti che vanno a comporre il Libro della veglia, un testo pensato per funzionare da gradevole introduzione alla cultura tradizionale della Provincia di Pesaro e Urbino. Il Volume raccoglie ventotto tra le leggende e le storie più identificative del territorio e delle sue comunità, memorie in buona parte in via d'estinzione, scelte dai curatori del blog ilfederico.com nella duplice speranza di contribuire in tal modo a dar loro una seconda vita e al lettore di trascorrere qualche momento piacevole in compagnia d'un pezzetto di quel racconto ancestrale – e spesso poco conosciuto – fatto dei luoghi che sono lui propri e delle genti che li vissero.
Gruppo di Lettura – 5 luglio 2022
Ci vogliono i superpoteri per riuscire a stare insieme a lungo e sopravvivere alla “mission impossible” del tempo che passa?
C’è chi risponde di sì, e chi mente.
Ci vogliono.
Pezzi di noi sparsi nel tempo
E per raccontarci come e quali, Genovese ci strapazza in un andirivieni frenetico che copre l’arco di un ventennio.
Ci spostiamo insieme ad Anna e Marco (omaggio?) saltando tra i fotogrammi sparpagliati della loro vita (e del loro amore), e anche se inizialmente questi continui salti temporali possono sembrare faticosi, spiazzanti, io li ho trovati belli e poetici, perché, a pensarci bene, la vita stessa è così… un tenere insieme i pezzi, recuperare sempre qualcosa che è rimasto indietro, persone, luoghi, pensieri, proseguire e poi fermarsi, guardarsi intorno, chiedersi dove si è arrivati, in che modo, con chi, e poi andare avanti… proiettarsi in un futuro che è solo un’illusione, una convenzione matematica, per poi tornare indietro, riguardare il percorso, studiarne i dettagli, cercare le cause che hanno determinato i fatti e perdersi nel caos del tempo.
Ma quale tempo?
Il tempo che è già trascorso? Quello che rimane? Quello che stiamo vivendo in questo preciso istante?
Il tempo che, secondo la fisica, non esiste: nel momento stesso in cui accade è già passato…
“Il tempo è solo la realtà nella quale pensiamo”.
La verità però è che il tempo esiste eccome, e te ne rendi conto soprattutto quando rischi di non averne più.
La vita di una coppia non si può studiare, non si piega a nessuna regola o formula matematica, né tantomeno si potrà mai prevedere quali urti dovrà subire, quali deviazioni o metamorfosi.
Non conosceremo mai in anticipo di quali e quanti silenzi si nutrirà.
Perché ci saranno, ci sono sempre.
Di noia.
Di routine.
Di calma.
Di complicità.
Di stupore.
Di sospensione.
Di assenza.
“Il silenzio è silenzio, ovunque e in ogni tempo. Ma come cambia di significato se lo associ a un amore vivo o a un amore stanco.”
In fondo questo libro parla di tutti noi, di quanto siamo infinitamente piccoli nell’immenso ingranaggio della vita, di quanto abbiamo bisogno di qualcuno diverso da noi per poterci salvare (“avevo bisogno della sua pazzia per non impazzire io”), salvare dalle nostre ossessioni, dal nostro passato irrisolto, da legami famigliari tossici, ci mostra come sia difficile, ma non impossibile, essere felici nonostante tutti gli errori, le missioni fallite, i cortocircuiti emotivi.
Che poi…”essere felici”… se è vero che “la felicità ha un’origine ma nessun approdo. Tende a svanire e a riformarsi, come un’onda sulla battigia”, allora meglio non fare troppi programmi, lasciarsi andare e vivere un po’ come Anna: prendiamo gli attimi che ci sono concessi, mettiamoli in fila e proviamo a chiamarli “vita”.
Questo libro parla di noi, sì, supereroi senza mantello che, a differenza di quelli disegnati, a volte perdiamo… ma non smettiamo mai di lottare.
P.s.1: io mi sono commossa, anzi no…ho proprio pianto.
P.s.2: guardate il film!!!
Incontro con l’autore – 10 giugno 2022
Segue intervista fatta durante l'incontro.
INTERVISTA
Presentati per farti conoscere ai presenti
Io non so chi sono io. Sono uno che è capitato da queste parti al seguito della famiglia quando avevo 17 anni ho fatto l’ultimo anno di liceo qui a Fano poi sono andato via per diversi anni. Lavoro a Pesaro. Per diletto scrivo, ho scritto parecchi libri, mi piace molto scrivere. per un periodo ho fatto teatro Cabaret, ho scritto parecchio per il teatro, negli ultimi anni mi sono dedicato più alla narrativa romanzi e raccolta di racconti.
Esperienze
Finito il liceo avevo bisogno di andare a lavorare, ho fatto per diversi anni l'operaio e poi ho cominciato a fare il programmatore, sono andato all'estero per la "cooperazione allo sviluppo", allora si chiamava così, sono stato più di cinque anni in Nicaragua nel periodo chi ci fu la rivoluzione sandinista, ho anche assistito alla fine della rivoluzione. In quel periodo ho scritto "17 differenti tonalità di verde", ebbi l'onore di essere presentato da Paolo Volponi. Il libro piacque molto. Dopo non ho scritto più niente per molti anni. Sono tornato nel '92 nel momento di tangentopoli, nei giorni di Falcone e Borsellino, ho ritrovato un paese abbastanza disastrato e sono ripartito sempre partecipando alla cooperazione internazionale ma fu tutto azzerato. Per un anno sono rimasto senza lavoro. dopo mi sono avvicinato alla cooperazione sociale, ho cominciato a lavorare nel campo informatico legato all'handicap con progetti nuovi sperimentali europei. Mi sono dedicato quasi subito nella cooperazione sociale, dove lavorano persone o disabili o pazienti psichiatrici o alcolisti o tossici dipendenti o detenuti.
Sono quasi trenta anni che lavoro in questo ambito. Ora sono presidente di una cooperativa di Pesaro abbastanza grande Lavoro con persone che hanno diversi tipi di disagio e con persone a cui piace stare in contatto con queste persone che a volte sono più disagiate di quelle che hanno una diagnosi certificata.
Nei miei libri questa realtà viene fuori molto spesso.
Com'è nata l'idea di questo libro, parlare di un amministratore di sostegno
L'amm. di sostegno sta diventando sempre più importante soprattutto per gli anziani, la mia esperienza è legata soprattutto a questa figura che viene assegnata a persone disabili, persone che non sono in grado di badare a sé stessi dal punto di vista economico. Riguarda anche persone che non hanno disabilità, per esempio nel libro c'è una persona "ludopatica" che i soldi se li gioca.
Molte persone con cui lavoravo a Pesaro avevano un amm. di sostegno, sempre la stessa persona che ad un certo punto ha avuto un malore, ora si è risolto tutto positivamente. Le persone che gestiva da un giorno all'altro si sono trovate senza soldi e non sapevano come fare. Si era creata una situazione di panico.
Nella trama ho inserito molte storie tratte dalla vita reale che incontro ogni giorno nel mio lavoro. il libro è scritto in prima persona al femminile, questo mi ha molto divertito. Questa donna che per lavoro si occupa di trovare lavoro alle persone seguite dall'amm. di sostegno (che poi sono i principali indiziati) dopo aver scoperto il cadavere non si fida della polizia e decide svolgere da sola le indagini pensando di tutelarle e si mette in situazioni al limite. Questa è una cosa tipica di queste persone che cercano di fare molto di più del loro compito. Questo libro l'ho ambientato in Ancona, è un tentativo di uscire dal guscio, dall'autobiografico (abito a Fano). Ancona è una città che conosco bene, ci sono dentro storie della famiglia di mia madre, in particolare la storia di un partigiano cugino di mia madre. La città di Ancona mi piace molto, la frequentavo da giovane durante le vacanze che passavo da mia nonna.
3 maggio 2022 – libro in lettura
"Ci sono guerre che non hanno tregua, eroi senza fanfare. Caterina è una di questi: una veterana di diciassette anni, che comincia la lotta ogni mattina, entrando nella tortura dei vestiti. Perché Caterina è obesa, e l'unica normalità che conosce è tra le mura di casa, in una famiglia di obesi. La sua identità scompare a contatto con il resto del mondo, perché fuori l'unico modo di sopravvivere è diventare Cate, la supereroina ferocemente autoironica il cui potere è quello di "essere il paragone che salva": nessuna è più brutta, più grassa o più sola di lei. Caterina va a testa alta per il mondo ostile: attraversa le selve dei soprannomi, si veste del desiderio di essere invisibile, rifiuta la pietà degli altri. Il suo posto nel mondo è gravato dalla sproporzione, ma la sua scialuppa di salvataggio è l'intelligenza, la sua arma il sarcasmo con cui anticipa su di sé il giudizio degli altri per anestetizzarlo prima che colpisca duro. Matteo Cellini entra a gamba tesa nella vita di Caterina, e senza sconti ci racconta la sua guerra. Lo fa talmente bene che non è la pietà per Cate quella che ci rimane, ma è il rispetto. Rispetto per questa eroina condannata al fuori misura, e rispetto per un autore che la misura – letteraria – invece la conosce bene, con un racconto durissimo e lieve, implosivamente normale e ferocissimamente pieno di tenerezza." (Alessandra Casella)
Incontro gruppo di lettura – martedì 29 marzo 2022
Quseto è il romanzo del cuore, quello che lo scrittore ha conservato per dieci anni prima di donarlo ai suoi lettori perché, parafrasando le sue parole, “le storie mica ti chiedono il permesso”.
Maurizio De Giovanni torna in libreria e lo fa con una storia d’amore, un amore diverso che vede protagonisti un nonno e un nipotino. Un dialogo non dialogo che contiene all’interno una forma d’amore che non si manifesta con gesti affettuosi ma attraverso la logica razionale dei numeri e della matematica.
Dopo la morte dell’adorata moglie Maddalena, Massimo De Gaudio, professore di matematica in pensione, trascorre le sue giornate a Solchiaro, un’isola del golfo di Napoli, nella casa che era stata luogo di villeggiatura quando la moglie era ancora viva e la figlia Cristina viveva ancora con loro. Taciturno e poco loquace, il professore vive una vita appartata confortato dalle sue abitudini e da una routine che comprende la pesca nei mesi estivi. La figlia si è trasferita al nord dopo il matrimonio con un ricco imprenditore padano. Massimo non la vede spesso, solo nei mesi estivi quando Cristina in compagnia del figlioletto Francesco, detto Checco, torna nell’isola per le vacanze. Massimo non è mai stato espansivo nemmeno col nipotino, suo muto compagno di pesca, non lo ha mai preso in braccio, non ha mai costruito con lui un rapporto solido fatto di baci e tenerezza, ma Checco lo adora, ama quell’uomo silenzioso che pesca in sua compagnia. Ma una fredda sera invernale il professore riceve una telefonata: la figlia è rimasta vittima di un incidente stradale e insieme al marito Luca ha perso la vita mentre Checco, che era in macchina con loro, sta lottando tra la vita e la morte. Come si reagisce ad una notizia del genere? Non certo come fa Massimo che trema all’idea di lasciare l’isola. Non prova dolore per la morte della figlia, ma un freddo distacco. Andare al nord per i funerali e per capire come sta Checco è solo una incombenza, qualcosa da fare per poi tornare a casa. Ma è veramente così? Ci si può davvero distaccare dal proprio sangue, avere un atteggiamento freddo e controllato?
“Si chiese per quale motivo non provasse dolore. Si chiese perché non fosse straziato, distrutto. Si chiese perché l’emozione più chiara che sentiva dentro fosse il fastidio di dover andare dove stava andando, di separarsi dalla sua quotidianità blindata.”
Massimo riesce perfino a dormire la sera prima del funerale della figlia. Deve sentirsi in colpa per questo? E il nipotino? In un primo momento vorrebbe perfino staccare la spina alle macchine che lo tengono in vita. Il risveglio dal coma significa comunicare al nipote che è rimasto solo al mondo. E lui vorrebbe evitare d’infliggere a Checco altro dolore, ma poi comincia a parlare con lui, parla ad un bambino quasi sconosciuto che non sa nemmeno se può ascoltarlo dal suo sonno indotto. No, non può davvero tornare alla sua isola, non può abbandonare il nipote che è anche l’unico erede di una fortuna. Ci sono decisioni da prendere, un mistero da svelare e poi c’è la matematica, il porto sicuro di Massimo, legante di un rapporto che è in itinere.
“Ciao, signore. Mi hanno detto che devo parlarti, e io ci provo. Credo di essere la persona meno adatta, perché normalmente io non parlo mai; non perché io stia sempre solo… Sto intere giornate senza parlare, sai, signore. A volte nemmeno ci faccio caso, seguo i miei pensieri, ripercorro teorie, faccio calcoli, cose che possono sembrare strane, ma che per me sono una specie di casa solo mia.”
Una domanda è rimasta impressa nella mia testa durante la lettura de L’equazione del cuore: dobbiamo amare i nostri cari perché nelle nostre vene scorre lo stesso sangue? Dobbiamo lasciare che il senso di colpa ci consumi, se non riusciamo ad essere all’altezza delle aspettative altrui?