GdL-le parole – Incontro 16 novembre
"Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi"
Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant'anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l'infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l'odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l'accoglienza e l'ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l'Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l'approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla "Roma bene" degli anni Cinquanta, infine l'incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant'anni. Fino a giungere all'oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell'attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.
Quando un giorno qualunque, nella tua piccola quotidianità di bimba povera, umile, senza una carezza, a volte triste, a volte gioiosa, bussano alla porta la paura e l’intolleranza, e lo smarrimento apre ad una incredulità e dolore inconcepibile;
quando vedi l’orrore e senti l’odio;
quando poi tutto “finisce” ma continua l’astio della tua gente, anche di chi ti ha “liberato”;
quando anche quel Dio invisibile che tua madre pregava, la terra promessa tanto ambita è ostile;
quando anche i tuoi familiari diventano estranei, il tuo cammino solitario con errori, rifiuti, discriminazione prosegue;
quando il passato niente insegna;
nonostante tutto ciò, tu resti la stessa ragazzina scalza, forte e libera.
Manuela
Alla soglia dei novant’anni l’autrice sente la necessità di consegnare al pubblico parte delle sue memorie, cosa questa non del tutto nuova visto che buona parte della sua produzione letteraria trae spunto dal suo doloroso vissuto.
Ebrea di origine ungherese, appena adolescente viene deportata dai nazisti assieme alla madre e alla sorella in un campo di prigionia e costretta ad affrontare le terribili prove che tutti conosciamo attraverso la nutrita letteratura e produzione filmica dal dopoguerra ad oggi. Il racconto di ciò occupa la prima parte del libro, breve, ma intenso. Ma è la seconda che, a mio avviso, risulta più interessante, in quanto affronta la questione del ritorno in patria dopo la liberazione e la ricostruzione del legame con i luoghi e le persone che si è dovuto abbandonare. Cosa questa che risulta estremamente difficile e carica di ulteriore sofferenza.
Non si può ricostruire ciò che si è spezzato per sempre.
La povertà, la fame, il gelo degli affetti anche tra consanguinei, l’ostilità mai sopita degli abitanti verso l’ebreo e la ricerca di un luogo in cui trascorrere il resto della vita e darsi un futuro di pace e di serenità rendono Edith insofferente ed inquieta, ancora piena di sospetti e paure, ma anche colma di rabbia e di desiderio. Non riesce ad adattarsi a niente, reclama diritti che gli altri non comprendono e coltiva la scrittura come il solo ed unico nutrimento in grado di pacificarla, almeno interiormente.
I suoi consanguinei anelano alla terra promessa, quella terra promessa a cui la madre tendeva in continuazione ma della quale lei dubita l’esistenza. Niente di ciò che vorrebbe le è concesso. Vuole suonare il pianoforte, invece le si prospetta un matrimonio, non sopporta dormitori e uomini in divisa ma non trova altro sul suo cammino.
Dopo lunghe peregrinazioni, in tempi e modi diversi, lei ed i fratelli sopravvissuti all’olocausto si ritrovano, nella nascente Israele, ancora tra conflitti a fuoco e ostilità, esistenze forzatamente condivise e militari. Il mare di profughi all’inizio viene sostenuto dagli ebrei fratelli di sangue, poi lentamente la vita riprende in modo autonomo, nella promiscuità delle razze e nella reciproca incomprensione.
Un matrimonio, una passione segnata dalla necessità e dalla violenza, un lavoro sottopagato, infine il divorzio e di nuovo in viaggio, prima in Grecia, e poi ancora in Europa.
Tutto cambia, meno che il disagio e l’amarezza, la solitudine e il bisogno di amore. Edith si ritrova a fare la ballerina assieme ad altre ragazze di una compagnia di giro, ma gli uomini che incontra non hanno occhi per la sua anima. Finché, di spettacolo in spettacolo, da un impresario ad un altro, ed imparando quattro lingue diverse, ecco finalmente l’Italia, un luogo che le corrisponde e che decide essere la sua vera patria.
Non comprende tutto degli italiani ma il paese è bello, caldo, anche nelle manifestazioni di affetto e simpatia dei suoi abitanti, oltre che nei luoghi della sua storia. Napoli prima e poi Roma, di nuovo maltrattata sul lavoro, a contatto con le stelle del cinema e la vacuità del mondo dell’apparenza. Ma Roma è grande, ed anche nel mondo dell’effimero può trovarsi qualcosa di buono, ed è Nelo Risi, poeta, scrittore e regista l’uomo con il quale dividerà sessant’anni della sua vita.
Gli starà vicino fino alla morte, condividendo le angosce del suo spaesamento, quando si ammalerà di Alzaimer e poi appoggiandosi alla sua stessa badante ucraina quando comincerà anche a lei a far difetto la memoria e la vista e troverà sempre più difficile scrivere. Scrivere appunto quest’ultimo libro, a compimento di una vita durissima ma anche densa di esperienze.
Tra queste il compito dato a se stessa, al pari di altri ebrei, di far conoscere ai giovani, per metterli in guardia, quel male oscuro che aveva ridotto gli uomini della Germania nazista ad esseri irriconoscibili, nei quali non c’era più nulla di umano.
Di tutto questo odio ancora oggi Edith Bruck non si capacita e, pur avendo perdonato, chiede conto a Dio, nell’ultimo passo del libro. Una lettera che preme nel suo cuore fin da quando era bambina, quando quell’invocazione era sempre sulla bocca di sua madre, la quale per ogni cosa scomodava il divino, per chiedergli il pane, un tetto sulla testa, un marito capace di provvedere ai sei figli che aveva messo al mondo, i quali anch’essi, se erano venuti, a suo dire, era solo per opera di Dio e non di quel pover’ uomo così incapace.
Ma Edith ormai sa che non c’è Dio dietro le cose del mondo e del male che affligge l’umanità, e che solo gli esseri umani sono i veri responsabili del loro bene e del loro male. Lo ha imparato attraverso tutto ciò che ha vissuto, sia in quanto subito a causa di altri, sia in quanto provocato da se stessa.
Certamente non sono molte le donne che possono dire di aver conosciuto così tanto della vita e della morte, ma, proprio per questo, di essere diventate così grandi.
Valeria