Incontro con Gabriella La Rovere
In margine all’incontro con l’Autrice del libro “Alice e altre storie” di Gabriella La Rovere riportiamo di seguito uno stralcio degli interventi della gradevole serata.
*Parlaci un po’ di te
+ Sono un medico con una sola paziente, ho avuto la fortuna di avere una paziente assoluta, mia figlia. È grazie a lei che sono in qualche maniera esperta di malattie rare e di autismo, ed essendo anche giornalista, ho potuto parlare di questa malattia in tempi nei quali non se ne parlava ancora. Ho potuto fare programmi televisivi che sono andati in onda sul satellite (Rai Educational) perché al tempo non c’erano alternative. Pur essendo laureata in medicina ho sempre scritto, anche da bambina leggevo e scrivevo molto. Nel momento che mi sono trasferita in Umbria, circa 10 anni fa, ho lasciato completamente il lavoro e mi sono dedicata completamente alla scrittura.
* Hai scritto anche dei monologhi per teatro, come è nata questa passione, se così la possiamo definire
+ È stato un puro caso perché quando ho scritto il primo libro “L’orologio di Benedetta”, in attesa della sua pubblicazione, per più di un anno, i miei amici che non mi sopportavano più mi hanno consigliato di creare un pezzo teatrale. Dopo averlo completato l’ho proposto a diverse attrici perché si trattava di un monologo di una donna, di una donna che ero io. Non ricevendo nessuna risposta, a Natale i miei amici, per passare un po’ di tempo, mi hanno proposto di leggerlo. Furono tutti concordi nel dire che per come lo stavo leggendo, potevo direttamente interpretarlo a teatro e così è stato. Siamo andati allo sbaraglio, ho recitato come se nella vita non avessi fatto altro. Ho fatto 44 repliche e ho scoperto un lato del mio carattere che non conoscevo. Quando vado sul palcoscenico mi trasformo.
* Come è nata l’esigenza di scrivere un libro di racconti
+ Io la notte dormo molto poco, studio e scrivo fino al sorgere dell’alba. In una di queste notti sono andata sul sito del quotidiano La Stampa dove si trova l’archivio storico del giornale. Sono andata a vedere gli avvenimenti del giorno della mia nascita anche perché, quel giorno, era collegato ad una serie di eventi che mi erano stati raccontati dai miei genitori. Sono nata appena finito il festival di San Remo, aveva vinto Domenico Modugno, e mia madre in sala parto ascoltava la sua canzone. Il mio nome Gabriella è venuto fuori perché non sapevano come chiamarmi e sfogliando il giornale hanno trovato la notizia che Gabriella di Savoia si era fidanzata con lo Scià di Persia contro il volere del Papa perché lui era divorziato. E tutti questi ricordi, narrazioni familiari, si ritrovavano nella lettura dell’archivio storico. Tra gli articoli che stavo leggendo, ogni tanto comparivano dei trafiletti con piccole storie che erano di una bellezza incredibile, meritavano una seconda possibilità perché erano sicuramente sfuggiti alla maggior parete dei lettori. Le ho trasformate poco, cambiando i nomi e gli ho dato una nuova vita.
* La storia di Alice
+ La storia di Alice è il monologo di una matta, ma in realtà questa storia mette insieme storie che ho ascoltato nei pazienti psichiatrici, perché come volontaria porto avanti da 5 anni un laboratorio di lettura ad alta voce per i pazienti psichiatrici del centro di salute mentale. Le loro storie mi hanno portato a creare la figura di Alice.
* Tra i racconti ce n’è qualcuno a cui tieni particolarmente
+ Dunque “Il cinematografo” è un ricordo della mia infanzia, mio nonno era di Tropea, quindi sono di origini calabrese, e negli anni ’70 (del novecento) viene la prima troupe cinematografica, un evento che aveva mobilitato tutto il paese e soprattutto noi ragazzi. “Burocrazia”, un racconto breve ma è una storia vera di un’assurdità inenarrabile, poi c’è “I fiori che non raccolsi” un amore che va oltre la morte. La storia di un uomo scappato dal manicomio negli anni ’60, quando lo riprendono lui chiede di andare al cimitero e trovano la tomba della moglie coperta completamente di fiori.
GABRIELLA LA ROVERE
ALICE E ALTRE STORIE
(commento di Valeria G.)
“Il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare”
Arthur Conan Doyle
Così recita la citazione riportata dall'autrice in quarta di copertina e, devo dire, non potrebbe essere più appropriata. Si potrebbe infatti parlare di “normalità della diversità”, visto che ogni vita è sì diversa da ogni altra, ma poiché tale diversità è comune e condivisa, essa di fatto diventa norma, regola non scritta.
L'aver raccontato in queste 13 piccole storie alcuni esempi di questo vasto e vario campionario umano – e non a caso quel genere di vite che si sottraggono alle luci della ribalta, invisibili come la polvere sotto il tappeto – conferisce dignità di protagonisti a uomini e donne segnati da un destino avverso. Tuttavia ciò non rappresenta un fatto eccezionale bensì, sembra suggerire l'autrice, non è altro che la realtà stessa, in quanto ciascuno di noi prima o poi, o direttamente oppure indirettamente, incontra qualcosa di simile anche nella propria esistenza.
Ciascuno di questi personaggi potrebbe meritare una narrazione voluminosa, figurando in un romanzo ampio e dettagliato, nel quale l'autore potrebbe dar sfoggio di estro letterario, con linguaggi e stili sofisticati, volti a gonfiare di ridondanze fatti di per sé semplici e circoscritti (mi torna in mente ad esempio “L'arminuta” di Donatella di Pietrantonio o “L'accabadora” della Murgia…).
L'autrice in questione invece, forse per la sua storia personale e formazione professionale (medico e giornalista), anziché aggiungere spessore e gravità alla singola vicenda la riduce all’essenziale, sfrondandola del superfluo e consegnandoci un ampio ventaglio di possibilità umane, un arcobaleno di tinte simile a quello di cui si colora il cielo all'ora del crepuscolo.
Il suo linguaggio infatti, semplice ma variegato, è asciutto ed essenziale; certe finestre si aprono appena, giusto quel tanto che serve per far entrare un po' di luce e cogliere ogni vicenda attraverso uno sguardo mirato e concentrato, subito pronto a spostarsi su altri oggetti, altre storie, altri uomini ed altre donne che popolano questo universo un po' grigio, sul quale solo per un attimo si accende il tenue bagliore di un raggio di luna.
Ciò, stranamente, dona forza ed intensità a quello sguardo che è insieme profondo e rispettosamente fugace, come per non essere troppo invadente. Un colpo d'occhio rapido e penetrante pari a quello di un falco, gettato proprio là dove la vita ripiega su se stessa e si fa scura, quelle zone d'ombra dove vanno a nascondersi le esistenze marginali per sottrarle alla luce accecante del sole e proteggere il proprio dolore.
Ed ecco che, così cercate e scovate nei loro angoli bui, dove la vergogna ed il pudore le aveva rintanate, quelle storie riprendono vita. Affiorano come tanti iceberg, emergono come quei piccoli nodi colorati sul grigio amorfo di un tessuto twid, mostrando tutta la loro rilevanza, fino a manifestarsi per ciò che sono: una presenza così diffusa e regolare da non costituire più un'eccezione, ma essere la norma.
Con rigore quasi scientifico, privo di pietismo eppure denso di sensibilità, Gabriella La Rovere rende evidenti questi mondi sommersi con lo spirito divulgativo di chi vuole condividere ciò che conosce bene. Riesce a farlo anche con particolare efficacia, come nel racconto “Alice”, testo quasi teatrale nella sua forma di monologo che ben ci rappresenta la rabbia e lo smarrimento di una donna costretta a TSO (trattamento sanitario obbligatorio); lo stesso si può dire anche di altri racconti, come quello del soldato perseguitato dal senso di colpa, dell'uomo senza più memoria o del vecchio in stato neurovegetativo e di tutti gli altri personaggi di cui si narra la fragilità dei sogni infranti e la difficile strada che conduce dall'angoscia del fallimento alla sua accettazione, fino alla inevitabile convivenza col proprio dolore.
Tredici racconti dunque sulla fatica di vivere, tranne uno, l'ultimo, il quale conclude con una nota di speranza. Un desiderio appena sbocciato viene affidato al tempo ed alla capacità della vita di donare ogni tanto, tra tante pietre dure ed opache, anche qualche diamante: il prezioso brillante dell'attesa e della fiducia in ciò che deve ancora avvenire.
Nel racconto “Il cinematografo”, che chiude il libro, emerge la necessità di credere fermamente che ciò che non è stato storpiato dagli 'incidenti di percorso' possa ancora crescere diritto. Nonostante tutto, almeno i bambini devono avere il diritto di sperare e di lottare per l'affermazione dei loro talenti, di confidare nella bontà del genere umano e nella generosità dell'esistenza, soggiornando il più a lungo possibile nella beata stagione dei giochi e della spensieratezza.
Chi non vorrebbe sentirsi ancora così, almeno qualche volta?