A seguito della serata di presentazione del volume “Spigolature 2”, a cura dell’Associazione “Monteporzio cultura”, mi sono sorti alcuni pensieri che vorrei condividere.
In questi ultimi tempi, tra celebrazioni, ricorrenze, centenari e via discorrendo si parla molto di memoria storica e valori del passato, forse anche perchè qualcuno si è accorto che non tutto ciò che è nuovo, moderno, ipertecnologico è utile e bello, come dimostrano le innumerevoli brutture d’ogni ordine e grado che la civiltà occidentale è riuscita a produrre in soli cinquant’anni di sviluppo economico-industriale.
E’ vero che si sono debellate malattie, diffuso il benessere, ridotte le diseguaglianze, migliorato il livello culturale della popolazione…., ma ciò è avvenuto solo fino ad un certo momento, a partire dal quale, così come esponenzialmente si è saliti, altrettanto esponenzialmente si sta scendendo.
Per finire dove?
In una sorta di magmatico caos.
Ecco dunque cercare nel passato, come sempre è accaduto nella storia, quei punti di forza a cui ancorare questa sorta di Titanic alla deriva. E, guardando indietro, ognuno la fa a modo suo.
A cominciare, alla fine del millennio appena concluso, è stata la Lega Nord, la quale, a fronte di ondate migratorie dal Sud del mondo e delle ruberie di “Roma ladrona”, ha scomodato perfino Alberto da Giussano per giustificare l’invenzione di uno Stato autonomo, la Padania, per ripristinare idiomi, tradizioni, concetti di razza e territorialità superati da tempo, salvo poi rinnegarli strada facendo, sostituendosi nei modi e nelle azioni a coloro che essi stessi contestavano.
Anche le istituzioni nazionali continuano a celebrare, con parate in pompa magna e corone di fiori deposte sulle tombe, i padri delle nostre vacillanti democrazie e gli eroi senza nome morti in guerra, mandati al macello da superiori spesso improvvisati e codardi, quando ancora c’era amor patrio e timor di Dio e ci si immolava per senso del dovere, .
Anche le case editrici e l’ industria cinematografica, cavalcando la nuova moda della rievocazione e della memoria, ripercorrono il secolo appena trascorso proponendo fictions televisive e biografie, rivisitazioni ed approfondimenti su eventi e personaggi più o meno famosi, spesso scoprendo fatti insospettabili ed atti eroici di uomini e donne comuni di cui nessuno ha mai parlato.
Autori locali si cimentano con la storia tuffandosi nel calderone dei ricordi, riesumando fatti, personaggi, dialetti, usanze e tradizioni d’altri tempi, quelli della civiltà contadina travolta dall’epopea industriale, riportandoli alla luce come importanti reliquie da conservare ed esporre.
Così, mentre da un lato la vita si allunga a dismisura ( appena ieri in Tv uno speaker faceva gli auguri ad un signore che stava compiendo il suo centosettesimo anno di età e guai a ricordarsi che ”…polvere sei e polvere ritornerai…”), l’Alzhaimer serpeggia insidioso tra i meandri delle sinapsi cerebrali, riducendo a brandelli quella facoltà della mente da alcuni così idolatrata: la memoria.
Del resto gli stessi medici ne raccomandano l’esercizio quale mezzo per ritardare le malattie degenerative del cervello. Ed allora, se ricordare fa bene alla salute, perchè non sollecitare ulteriormente questa pratica con progetti adeguati e coinvolgenti il maggior numero di persone, magari con programmi concordati con le A.S.L, a scopo preventivo e non solo riabilitativo?
A molti piace guardarsi alle spalle con un vago senso di nostalgia. Ad essi ciò che è stato sembra sempre meglio di ciò che è e di ciò che sarà. Magari è vero, ma non si può generalizzare, nè sottoporre nipoti e conoscenti alla continua lamertosa litanìa che comincia col famoso ritornello: “..Ai miei tempi…”
Ci sono poi coloro a cui piace la storia in quanto tale ed allora diventano cultori di ogni traccia e segno del passato, anche il più insignificante, che però ai loro occhi diventa importantissimo. Ogni piccolo borgo ha il suo collezionista di cimeli, il suo “antiquario”, con la sua banca dati, il suo archivio, il suo piccolo museo domestico.
Certi, infine, amando scrivere ma non avendo la fantasia del romanziere o la tecnica del letterato, usano la ricerca storiografica e la documentazione quale spunto e pretesto per argomentare le proprie tesi, portarsi alla ribalta e lasciare traccia di sè, per sopravvivere al tempo e non essere dimenticato.
Coloro che hanno a cuore il passato, comunque vi si approccino, lo fanno perchè lì è avvenuto qualcosa che li ha segnati, che ha dato un senso alla loro vita e nel quale si riconoscono. Ciò che sono oggi è il frutto di ciò che è accaduto e che hanno vissuto con amore.
Non può che essere così, altrimenti non si spiegherebbe l’accanimento distruttivo di quanti oggi, al contrario e in altri luoghi, quei segni della storia, anzichè conservarli, li annientano.
Sto parlando dell’Isis naturalmente. Ci si chiede perchè lo facciano e si inorridisce. Quasi si comprende più la soppressione degli esseri umani che quella delle pietre, che non possono reagire nè vendicarsi. Pur se indottrinati supinamente e follemente manipolati non possiamo non domandarci quale sia la radice e il senso di tanto odio. Sanno quello che fanno?
Mentre noi mitizziamo il passato e le sue testimonianzre artistiche e monumentali, ed ora ne propagandiamo sempre più il valore e le meraviglie riscoprendovi una bellezza che può diventare business, loro, come orde di barbari di antica memoria, eppure superbamente tecnologici ed informatizzati, e abili strateghi della comunicazione audiovisiva, fanno tabula rasa di ogni civiltà e nazione che a mano a mano conquistano ed assoggettano. Eliminano tutto quello che appartiene ad un passato in cui non si riconoscono, uomini o cose che siano.
Mi torna in mente quell’espressione che imparammo da bambini per definire una distruttività all’ennesima potenza: “dove passa Attila non cresce più l’erba”.
L’ultima notizia sentita al riguardo è quella secondo la quale ora, forse compreso il valore estetico-economico dei monumenti, la loro distruzione sarebbe finalizzata alla loro vendita, quale mezzo di auto finanziamento. Chi comprerà quei reperti? Chi darà modo a costoro di espandersi ulteriormente? Non gli stessi che hanno comprato o si sono portati a casa un pezzetto del muro di Berlino.
Essi non pensano certamente di aprire le porte dei loro nuovi regni ai turisti, bensì hanno in animo di affamarci attraverso il controllo delle fonti energetiche e gelarci con la paura e il terrore. Purtroppo ci stanno riuscendo.
Stanno minando le nostre certezze, le nostre presunte sicurezze, a partire da quelle fiumane di profughi che si riversano sulle nostre coste, cacciati dalle loro terre insanguinate ed impotenti di fronte ai massacri.
Un paese impoverito come l’Italia non sa più accogliere, ma si mette sulla difensiva ed a sua volta chiede aiuto. Quanto più “aggredito” dallo straniero, tanto più aggredisce e si arrocca invocando ed esasperando le ovvie distinzioni: “Prima si pensi a noi, poi a loro…”- si dice.
All’improvviso ci si dimentica che ormai da qualche decennio molti confini sono caduti. E’ stata la globalizzazione a farli cadere, il libero mercato, l’economia finanziaria che non conosce barriere. Naturalmente il cittadino medio non ne ha goduto i benefici, anzi…
Gli costa fatica dunque condividere una sorte di povertà e di dolore di cui non è responsabile e dalla quale è uscito poco più di cinquant’anni fa. Che a porvi rimedio ci pensino allora coloro che questa situazione l’hanno provocata, coloro che quando si parla di economia non si fanno scrupolo di globalizzare, ma che se ne lavano le mani quando a dover essere globalizzata è la solidarietà…
Ma torniamo al tema di questo scritto: il rapporto con il passato e con le sue testimonianze.
Si dice che guardare indietro serve ad evitare di commettere gli stessi errori. Indiscutibilmente questa è una motivazione forte, così forte che siamo sempre all’erta quando qualcosa o qualcuno minaccia le conquiste faticosamente raggiunte impugnando le armi: la libertà, il benessere, i diritti, la pace.
Tuttavia la conflittualità è sempre latente e, paradossalmente, è per eliminarla che si fanno le guerre o s’impone la pace attraverso una qualche forma di dittatura. Sono discorsi molto grossi nei quali sicuramente, ad affrontarli, mi perderei. Sarà senz’altro utile a tal proposito leggere il libro di Alessandro Pucci “Nel cuore del conflitto”, che l’autore stesso presenterà il 22 maggio.
Voglio solo ribadire il concetto a cui ho accennato prima e cioè che si tende a preservare, riscoprire, mitizzare solo ciò che ha un qualche valore sentimentale e che, al contrario, riserviamo violenza e distruttività, o semplice indifferenza, a ciò che non ci rappresenta, che non abbiamo fatto nostro o che ostacola la nostra idea di realizzazione.
Il passato non ha valore assoluto, nè è imprescindibile e dobbiamo accettare il fatto che ci siano individui o gruppi sociali che desiderano che non sia mai esistito, perchè ciò a cui ha condotto non costituisce per costoro nulla di positivo.
Penso ad esempio a certi giovani “vandali” che, più o meno politicizzati, imbrattano di scritte gli edifici storici, quando non fanno a pezzi le vetrine di banche e negozi., penso anche a qualsiasi altra forma di violenza espressa contro il così detto “bene comune”, dagli edifici scolastici ai loro arredi, dai musei alle biblioteche o ai parchi. Si distrugge ciò che rappresenta il nemico, i suoi simboli, ciò in cui non ci identifichiamo e che vorremmo annientare per ricominciare da zero, secondo un piano diverso, una visione nostra che non trova ascolto o che non riusciamo a comunicare. E’ segno di un disagio, di un’esclusione, di un’ingiustizia, di un potere che viene meno e che appartiene solo ad altri, di un consenso che non viene tributato perchè chi lo pretende dà solo cattivi esempi.
E, quando il dialogo è impossibile, non resta che la violenza. Anche questa fa parte della storia, anch’essa va interpretata alla luce di approcci psicologici, sociologici ed antropologici che, unitamente all’esplorazione degli eventi, possono spiegare molte cose ed impedire la prosecuzione di comportamenti ed atteggiamenti carichi di nefaste conseguenze.
Dicevo, dunque, che la storia ha un valore non assoluto ma relativo e che a raccontarla sono gli uomini, i quali, così come sono di parte quando si cimentano con le cose della scienza, altrettanto ed anzi ancor di più fanno con i fatti della vita, sia che appartengano alle grandi nazioni che alle piccole comunità. Anche andando alla ricerca di eventi documentabili si tenderà sempre a privilegiare ed a riportare quelli che, in qualche modo, corrispondono alle nostre ideologie, alla nostra visione del mondo, al nostro sentire.
Certamente il libro in questione, più che un libro di storia è un libro di storie e, per quanto mi è parso dandogli una semplice occhiata ed ascoltando gli interventi di alcuni dei suoi autori la sera della presentazione, è un testo in cui la documentazione oggettiva e scientifica, pur presente, occupa un posto secondario rispetto al racconto del vissuto personale, al sentimento della rievocazione, all’affettività che scorre dentro il ricordo. E’ la rappresentazione di quel luogo virtuale dove i grandi fatti nazionali ed un modo di vivere condiviso con milioni di connazionali si interseca con la piccola storia locale, dando valore e dignità anche al più sconosciuto degli uomini.
Libri così dovrebbero esistere in ogni comune, tanto più se piccolo ed un pò dimenticato, non solo per testimoniare ciò che era, ma anche e soprattutto per colmare in qualche modo il solco venutosi a creare nei decenni tra passato e presente.
Infatti non solo le guerre devastano e distruggono, ma anche uno sviluppo accellerato ed incontrollato può lacerare irreversibilmente il tessuto sociale, la forza di coesione di una comunità ed i suoi passaggi generazionali. Si guardi ciò che oggi sta avvenendo in Cina o in India ed a quale velocità quelle nazioni ben più grandi della nostra ci stanno raggiungendo e sorpassando.
Del resto le società vitali mutano continuamente il loro assetto, ma un conto è farlo gradualmente, altro repentinamente.
Per questo, c’è sempre un prezzo da pagare, ed oggi pare che a doverlo fare siano soprattutto le nuove generazioni, apparentemente sempre più sbandate, almeno dal nostro punto di vista.
Penso che solo nella prospettiva di salvare il salvabile abbia un senso guardarsi indietro e chiedersi se prima le cose andavano meglio e perchè , e cosa di quel passato abbia senso recuperare perchè ancora utile, vivo e funzionale.
Ciò vale per ogni aspetto dell’esistenza, da quello lavorativo a quello relazionale, da quello filosofico a quello comportamentale. Tutto questo però solo nella misura in cui il presente ci appare soverchiante e sbagliato, causa d’infelicità o disadattamento, cosa che, mi pare, non riguarda poi tanti. I più infatti sono ben lieti di continuare come sempre la corsa ai consumi, soprattutto quando si tratta di acquistare l’ultimo degli innumerevoli giochini elettronici, con i loro surrogati dell’’amicizia e della comunicazione.
E’ chi ha conosciuto altro a gridare allarmato: “Pericolo! …Dove stiamo andando?….”
Ed io, ormai lo sapete bene, sono una di questi, una che porta dentro il proprio cuore il ricordo dei nonni, di un’infanzia immersa nella natura, nella spensieratezza di giornate meno assordanti, quando si dedicava tempo all’ascolto dell’altro, di se stessi e del silenzio che ci accoglieva.
Potremmo definire tutto questo nostalgia della “lentezza”, termine diventato di moda attraverso lo slow food di Petrini, o anche nostalgia della “bellezza”, parola anch’essa ormai abusata in ogni ambito. Del resto quando ero bambina il tempo sembrava avanzare e certi obbrobrii non erano stati ancora neppure pensati, o almeno non me ne ero accorta.
Si potrebbe però parlare anche di nostalgia della “ricchezza”. Una ricchezza naturalmente non economica, bensì di immaginazione, di scambi umani, di speranza, di curiosità, di bio-diversità.
Dopo l’appiattimento della massificazione culturale e quello delle colture agricole la diversità torna alla ribalta o si afferma in modo nuovo ed originale. Oggi la molteplicità è un valore e ne dobbiamo accettare la necessità e la parziale ingovernabilità.
Sempre più consapevoli dei danni provocati all’ambiente e al paesaggio con interventi che ne forzano l’assetto naturale, provocandone la distruzione, ci si accorge che la diversità biologica e territoriale non solo ha una bellezza intrinseca ma può anche rappresentare una risorsa..
Quando non si può più andare avanti allora ci si deve fermare. E’ nell’ordine delle cose.
Si pensi alle ristrutturazioni di cascine e casolari che diventano agriturismi o case-vacanza per benestanti proprietari nord-europei, al recupero di colture autoctone dimenticate e certificate da nuove sigle di tutela (I.G.P., D.O.P….), agli allestimenti sempre più filologici delle rievocazioni storiche, alla riscoperta dell’artigianato artistico e ripristino di materiali desueti, ai musei delle civiltà contadine e ai piatti tipici tradizionali tornati prepotentemente in auge quale sinonimo di qualità e rinnovato buon gusto.
Sono tutti esempi di uno sguardo retrospettivo profiquo sia sul piano della resa economica che su quello della qualità della vita. Chi si orienta verso questa dimensione lo fa certamente anche perchè vi trova un significato esistenziale, ritmi e modalità di lavoro ugualmente intensi ma forse più motivanti e collaborativi, una vicinanza alla natura che rende più lieti e pronti ad aiutarsi gli uni con gli altri, nel solco di una solidarietà di cui le vecchie generazioni appartenenti alle famiglie numerose di un tempo, cantano valori e virtù.
Ora però ciò che dobbiamo chiederci è quanto di tutto questo possa interessare le nuove generazioni, dal momento che durante la serata si è parlato di presentare il libro alle scolaresche, accompagnando l’evento con il racconto diretto del proprio vissuto da parte di qualche anziano, cosa che del resto sostengo da tempo.
Quanto di tutto ciò che noi crediamo un valore è sentito come tale anche da altri, soprattutto se ormai avvezzi a ben altro fin dalla più tenera età?
Per noi infatti si tratta di far rivivere qualcosa di cui sentiamo la mancanza, mentre per i ragazzi si tratta di qualcosa in più che gli viene propinato, a meno che all’interno della loro famiglia non ci siano stati nonni o bisnonni che li hanno già avvicinati alle questioni di cui stiamo discorrendo.
Quel poco di esperienza che ho maturato con i ragazzi mi suggerisce che bisogna suscitare curiosità per ottenere attenzione. Ciò diventa possibile solo se quanto viene raccontato o mostrato coinvolge non solo il loro sguardo e la loro testa, ma anche il sentire ed il fare, cioè se si lega la teoria alla prassi attraverso laboratori pratici.
Appena dall’altra parte del fiume Cesano, proprio di fronte al Parco, nel territorio di Corinaldo, un vecchio mulino, diventato museo, offre questa opportunità a cui il libro può appoggiarsi, come ho più volte fatto presente ad educatori e presidenti vari, tra altre varie proposte.
Non si ottiene nulla senza coinvolgimento diretto delle persone a cui si vuole rivolgere il messaggio se non già motivate di per sè.
Non è un caso che l’oratorio di Castelvecchio, circa due settimane fa, fosse gremito di ragazzi (ed adulti) pronti ad ascoltare i loro piccoli amici che recitavano una commediola in dialetto. E come si divertivano! (Certo però che vedere dei ragazzini di 9/11 anni truccati da uomini e donne anni ’40 intercalare una frase con un bicchiere di vino non è proprio il massimo….; forse sarebbe opportuno pensare a qualcos’altro….Non la smetterò mai di ribadire che certe feste o certe manifestazioni che prospettano il bicchiere facile come la cosa più sana e naturale del mondo non recano un gran servizio nè alla società nè ai ragazzi, tanto più in un’epoca quale questa in cui l’alcolismo è una vera piaga, che miete ogni giorno molte giovani vite!)
Coinvolgere dunque, e coinvolgere positivamente, magari andando alla riscoperta di vecchi mestieri, dal calzolaio all’aggiustatore di biciclette, dalla sarta alla ricamatrice, dall’uomo che fa i cesti al falegname. Saper usare le mani non è solo prerogativa dell’artista ma anche di un bravo artigiano e di bravi artigiani ci sarà sempre bisogno.
Solo un’ultima osservazione. Come spesso accade anche in questo libro di storie manca la voce delle donne, tranne che per un paio di esempi. Non se ne trovano mai nè tra pittori, filosofi o capi di stato. Quando compaiono sono come aghi in un pagliaio. Eppure esistono e sono più degli uomini, e alla pari degli uomini hanno contribuito a creare questa nazione, così com’è oggi, attraverso il loro lavoro nelle fabbriche quando i padri ed i mariti erano in guerra, o come staffette partigiane, e poi con il loro silenzioso esserci comunque, come mogli obbedienti, madri amorose, badanti col doppio lavoro, nei campi ed ai capezzali dei vecchi, sempre meno pagate degli uomini, nonostante la fatica delle gravidanze, dei parti o degli aborti. E spesso violentate ed ancora oggi ammazzate da compagni padroni che mal ne digeriscono l’autonomia, il libero pensiero, l’indipendenza..
Persino Papa Francesco, rivoluzionario anche nel modo di considerare la donna, ne rivendica il pieno diritto all’uguaglianza con gli uomini, di cui spiritosamente denuncia la mancanza di responsabilità.
“E’ cominciato tutto fin dall’episodio riportato nella Bibbia – dice – quando Dio, arrabbiatosi con Adamo per via della mela, si difese dicendo: “Chi…? Io…? E’ stata lei a darmela…, io non c’entro niente….” “
A giudicare dall’aumento della violenze domestiche contro le donne temo che molti uomini non abbbiano accettato di buon grado neppure quel po’ di libertà che il femminismo ci ha fatto guadagnare. Non vorrei davvero che fra le cose del passato a cui molti guardano con nostalgia ci sia anche quel certo modo di trattarci che pensavamo superato. Siamo italiani o talebani?
Sarebbe bello riuscire a mettere l’universo femminile al centro di un progetto di recupero, alla luce della trasformazione del ruolo della donna nel tempo, e nel tentativo di riequilibrare i rapporti tra i sessi. Mi piacerebbe che oggi molte bambine non avessero come modello di riferimento solo la cantante o la velina, così come i maschietti la carriera di calciatore o del pilota di formula uno, entrambi illusi da grandi e facili guadagni e che la si smettesse una buona volta di identificare la libertà e l’uguaglianza tra i generi con il libertinaggio in bella mostra in certi reality televisivi.
Uomini e donne avrebbero ben altro da realizzare e raccontare., se solo la smettessero di farsi manipolare.
Ing. David Guanciarossa Presidente
Dott. Leonardo Zan Vice-Presidente
Sig. Simone Ragnetti Tesoriere
Dott. Giovanni Breccia Segretario
Prof. Enrico Tosi Consigliere
Prof. Luciano Poggiani Consigliere
Noi e il Passato
(una riflessione di V.G.)
A seguito della serata di presentazione del volume “Spigolature 2”, a cura dell’Associazione “Monteporzio cultura”, mi sono sorti alcuni pensieri che vorrei condividere.
In questi ultimi tempi, tra celebrazioni, ricorrenze, centenari e via discorrendo si parla molto di memoria storica e valori del passato, forse anche perchè qualcuno si è accorto che non tutto ciò che è nuovo, moderno, ipertecnologico è utile e bello, come dimostrano le innumerevoli brutture d’ogni ordine e grado che la civiltà occidentale è riuscita a produrre in soli cinquant’anni di sviluppo economico-industriale.
E’ vero che si sono debellate malattie, diffuso il benessere, ridotte le diseguaglianze, migliorato il livello culturale della popolazione…., ma ciò è avvenuto solo fino ad un certo momento, a partire dal quale, così come esponenzialmente si è saliti, altrettanto esponenzialmente si sta scendendo.
Per finire dove?
In una sorta di magmatico caos.
Ecco dunque cercare nel passato, come sempre è accaduto nella storia, quei punti di forza a cui ancorare questa sorta di Titanic alla deriva. E, guardando indietro, ognuno la fa a modo suo.
A cominciare, alla fine del millennio appena concluso, è stata la Lega Nord, la quale, a fronte di ondate migratorie dal Sud del mondo e delle ruberie di “Roma ladrona”, ha scomodato perfino Alberto da Giussano per giustificare l’invenzione di uno Stato autonomo, la Padania, per ripristinare idiomi, tradizioni, concetti di razza e territorialità superati da tempo, salvo poi rinnegarli strada facendo, sostituendosi nei modi e nelle azioni a coloro che essi stessi contestavano.
Anche le istituzioni nazionali continuano a celebrare, con parate in pompa magna e corone di fiori deposte sulle tombe, i padri delle nostre vacillanti democrazie e gli eroi senza nome morti in guerra, mandati al macello da superiori spesso improvvisati e codardi, quando ancora c’era amor patrio e timor di Dio e ci si immolava per senso del dovere, .
Anche le case editrici e l’ industria cinematografica, cavalcando la nuova moda della rievocazione e della memoria, ripercorrono il secolo appena trascorso proponendo fictions televisive e biografie, rivisitazioni ed approfondimenti su eventi e personaggi più o meno famosi, spesso scoprendo fatti insospettabili ed atti eroici di uomini e donne comuni di cui nessuno ha mai parlato.
Autori locali si cimentano con la storia tuffandosi nel calderone dei ricordi, riesumando fatti, personaggi, dialetti, usanze e tradizioni d’altri tempi, quelli della civiltà contadina travolta dall’epopea industriale, riportandoli alla luce come importanti reliquie da conservare ed esporre.
Così, mentre da un lato la vita si allunga a dismisura ( appena ieri in Tv uno speaker faceva gli auguri ad un signore che stava compiendo il suo centosettesimo anno di età e guai a ricordarsi che ”…polvere sei e polvere ritornerai…”), l’Alzhaimer serpeggia insidioso tra i meandri delle sinapsi cerebrali, riducendo a brandelli quella facoltà della mente da alcuni così idolatrata: la memoria.
Del resto gli stessi medici ne raccomandano l’esercizio quale mezzo per ritardare le malattie degenerative del cervello. Ed allora, se ricordare fa bene alla salute, perchè non sollecitare ulteriormente questa pratica con progetti adeguati e coinvolgenti il maggior numero di persone, magari con programmi concordati con le A.S.L, a scopo preventivo e non solo riabilitativo?
A molti piace guardarsi alle spalle con un vago senso di nostalgia. Ad essi ciò che è stato sembra sempre meglio di ciò che è e di ciò che sarà. Magari è vero, ma non si può generalizzare, nè sottoporre nipoti e conoscenti alla continua lamertosa litanìa che comincia col famoso ritornello: “..Ai miei tempi…”
Ci sono poi coloro a cui piace la storia in quanto tale ed allora diventano cultori di ogni traccia e segno del passato, anche il più insignificante, che però ai loro occhi diventa importantissimo. Ogni piccolo borgo ha il suo collezionista di cimeli, il suo “antiquario”, con la sua banca dati, il suo archivio, il suo piccolo museo domestico.
Certi, infine, amando scrivere ma non avendo la fantasia del romanziere o la tecnica del letterato, usano la ricerca storiografica e la documentazione quale spunto e pretesto per argomentare le proprie tesi, portarsi alla ribalta e lasciare traccia di sè, per sopravvivere al tempo e non essere dimenticato.
Coloro che hanno a cuore il passato, comunque vi si approccino, lo fanno perchè lì è avvenuto qualcosa che li ha segnati, che ha dato un senso alla loro vita e nel quale si riconoscono. Ciò che sono oggi è il frutto di ciò che è accaduto e che hanno vissuto con amore.
Non può che essere così, altrimenti non si spiegherebbe l’accanimento distruttivo di quanti oggi, al contrario e in altri luoghi, quei segni della storia, anzichè conservarli, li annientano.
Sto parlando dell’Isis naturalmente. Ci si chiede perchè lo facciano e si inorridisce. Quasi si comprende più la soppressione degli esseri umani che quella delle pietre, che non possono reagire nè vendicarsi. Pur se indottrinati supinamente e follemente manipolati non possiamo non domandarci quale sia la radice e il senso di tanto odio. Sanno quello che fanno?
Mentre noi mitizziamo il passato e le sue testimonianzre artistiche e monumentali, ed ora ne propagandiamo sempre più il valore e le meraviglie riscoprendovi una bellezza che può diventare business, loro, come orde di barbari di antica memoria, eppure superbamente tecnologici ed informatizzati, e abili strateghi della comunicazione audiovisiva, fanno tabula rasa di ogni civiltà e nazione che a mano a mano conquistano ed assoggettano. Eliminano tutto quello che appartiene ad un passato in cui non si riconoscono, uomini o cose che siano.
Mi torna in mente quell’espressione che imparammo da bambini per definire una distruttività all’ennesima potenza: “dove passa Attila non cresce più l’erba”.
L’ultima notizia sentita al riguardo è quella secondo la quale ora, forse compreso il valore estetico-economico dei monumenti, la loro distruzione sarebbe finalizzata alla loro vendita, quale mezzo di auto finanziamento. Chi comprerà quei reperti? Chi darà modo a costoro di espandersi ulteriormente? Non gli stessi che hanno comprato o si sono portati a casa un pezzetto del muro di Berlino.
Essi non pensano certamente di aprire le porte dei loro nuovi regni ai turisti, bensì hanno in animo di affamarci attraverso il controllo delle fonti energetiche e gelarci con la paura e il terrore. Purtroppo ci stanno riuscendo.
Stanno minando le nostre certezze, le nostre presunte sicurezze, a partire da quelle fiumane di profughi che si riversano sulle nostre coste, cacciati dalle loro terre insanguinate ed impotenti di fronte ai massacri.
Un paese impoverito come l’Italia non sa più accogliere, ma si mette sulla difensiva ed a sua volta chiede aiuto. Quanto più “aggredito” dallo straniero, tanto più aggredisce e si arrocca invocando ed esasperando le ovvie distinzioni: “Prima si pensi a noi, poi a loro…”- si dice.
All’improvviso ci si dimentica che ormai da qualche decennio molti confini sono caduti. E’ stata la globalizzazione a farli cadere, il libero mercato, l’economia finanziaria che non conosce barriere. Naturalmente il cittadino medio non ne ha goduto i benefici, anzi…
Gli costa fatica dunque condividere una sorte di povertà e di dolore di cui non è responsabile e dalla quale è uscito poco più di cinquant’anni fa. Che a porvi rimedio ci pensino allora coloro che questa situazione l’hanno provocata, coloro che quando si parla di economia non si fanno scrupolo di globalizzare, ma che se ne lavano le mani quando a dover essere globalizzata è la solidarietà…
Ma torniamo al tema di questo scritto: il rapporto con il passato e con le sue testimonianze.
Si dice che guardare indietro serve ad evitare di commettere gli stessi errori. Indiscutibilmente questa è una motivazione forte, così forte che siamo sempre all’erta quando qualcosa o qualcuno minaccia le conquiste faticosamente raggiunte impugnando le armi: la libertà, il benessere, i diritti, la pace.
Tuttavia la conflittualità è sempre latente e, paradossalmente, è per eliminarla che si fanno le guerre o s’impone la pace attraverso una qualche forma di dittatura. Sono discorsi molto grossi nei quali sicuramente, ad affrontarli, mi perderei. Sarà senz’altro utile a tal proposito leggere il libro di Alessandro Pucci “Nel cuore del conflitto”, che l’autore stesso presenterà il 22 maggio.
Voglio solo ribadire il concetto a cui ho accennato prima e cioè che si tende a preservare, riscoprire, mitizzare solo ciò che ha un qualche valore sentimentale e che, al contrario, riserviamo violenza e distruttività, o semplice indifferenza, a ciò che non ci rappresenta, che non abbiamo fatto nostro o che ostacola la nostra idea di realizzazione.
Il passato non ha valore assoluto, nè è imprescindibile e dobbiamo accettare il fatto che ci siano individui o gruppi sociali che desiderano che non sia mai esistito, perchè ciò a cui ha condotto non costituisce per costoro nulla di positivo.
Penso ad esempio a certi giovani “vandali” che, più o meno politicizzati, imbrattano di scritte gli edifici storici, quando non fanno a pezzi le vetrine di banche e negozi., penso anche a qualsiasi altra forma di violenza espressa contro il così detto “bene comune”, dagli edifici scolastici ai loro arredi, dai musei alle biblioteche o ai parchi. Si distrugge ciò che rappresenta il nemico, i suoi simboli, ciò in cui non ci identifichiamo e che vorremmo annientare per ricominciare da zero, secondo un piano diverso, una visione nostra che non trova ascolto o che non riusciamo a comunicare. E’ segno di un disagio, di un’esclusione, di un’ingiustizia, di un potere che viene meno e che appartiene solo ad altri, di un consenso che non viene tributato perchè chi lo pretende dà solo cattivi esempi.
E, quando il dialogo è impossibile, non resta che la violenza. Anche questa fa parte della storia, anch’essa va interpretata alla luce di approcci psicologici, sociologici ed antropologici che, unitamente all’esplorazione degli eventi, possono spiegare molte cose ed impedire la prosecuzione di comportamenti ed atteggiamenti carichi di nefaste conseguenze.
Dicevo, dunque, che la storia ha un valore non assoluto ma relativo e che a raccontarla sono gli uomini, i quali, così come sono di parte quando si cimentano con le cose della scienza, altrettanto ed anzi ancor di più fanno con i fatti della vita, sia che appartengano alle grandi nazioni che alle piccole comunità. Anche andando alla ricerca di eventi documentabili si tenderà sempre a privilegiare ed a riportare quelli che, in qualche modo, corrispondono alle nostre ideologie, alla nostra visione del mondo, al nostro sentire.
Certamente il libro in questione, più che un libro di storia è un libro di storie e, per quanto mi è parso dandogli una semplice occhiata ed ascoltando gli interventi di alcuni dei suoi autori la sera della presentazione, è un testo in cui la documentazione oggettiva e scientifica, pur presente, occupa un posto secondario rispetto al racconto del vissuto personale, al sentimento della rievocazione, all’affettività che scorre dentro il ricordo. E’ la rappresentazione di quel luogo virtuale dove i grandi fatti nazionali ed un modo di vivere condiviso con milioni di connazionali si interseca con la piccola storia locale, dando valore e dignità anche al più sconosciuto degli uomini.
Libri così dovrebbero esistere in ogni comune, tanto più se piccolo ed un pò dimenticato, non solo per testimoniare ciò che era, ma anche e soprattutto per colmare in qualche modo il solco venutosi a creare nei decenni tra passato e presente.
Infatti non solo le guerre devastano e distruggono, ma anche uno sviluppo accellerato ed incontrollato può lacerare irreversibilmente il tessuto sociale, la forza di coesione di una comunità ed i suoi passaggi generazionali. Si guardi ciò che oggi sta avvenendo in Cina o in India ed a quale velocità quelle nazioni ben più grandi della nostra ci stanno raggiungendo e sorpassando.
Del resto le società vitali mutano continuamente il loro assetto, ma un conto è farlo gradualmente, altro repentinamente.
Per questo, c’è sempre un prezzo da pagare, ed oggi pare che a doverlo fare siano soprattutto le nuove generazioni, apparentemente sempre più sbandate, almeno dal nostro punto di vista.
Penso che solo nella prospettiva di salvare il salvabile abbia un senso guardarsi indietro e chiedersi se prima le cose andavano meglio e perchè , e cosa di quel passato abbia senso recuperare perchè ancora utile, vivo e funzionale.
Ciò vale per ogni aspetto dell’esistenza, da quello lavorativo a quello relazionale, da quello filosofico a quello comportamentale. Tutto questo però solo nella misura in cui il presente ci appare soverchiante e sbagliato, causa d’infelicità o disadattamento, cosa che, mi pare, non riguarda poi tanti. I più infatti sono ben lieti di continuare come sempre la corsa ai consumi, soprattutto quando si tratta di acquistare l’ultimo degli innumerevoli giochini elettronici, con i loro surrogati dell’’amicizia e della comunicazione.
E’ chi ha conosciuto altro a gridare allarmato: “Pericolo! …Dove stiamo andando?….”
Ed io, ormai lo sapete bene, sono una di questi, una che porta dentro il proprio cuore il ricordo dei nonni, di un’infanzia immersa nella natura, nella spensieratezza di giornate meno assordanti, quando si dedicava tempo all’ascolto dell’altro, di se stessi e del silenzio che ci accoglieva.
Potremmo definire tutto questo nostalgia della “lentezza”, termine diventato di moda attraverso lo slow food di Petrini, o anche nostalgia della “bellezza”, parola anch’essa ormai abusata in ogni ambito. Del resto quando ero bambina il tempo sembrava avanzare e certi obbrobrii non erano stati ancora neppure pensati, o almeno non me ne ero accorta.
Si potrebbe però parlare anche di nostalgia della “ricchezza”. Una ricchezza naturalmente non economica, bensì di immaginazione, di scambi umani, di speranza, di curiosità, di bio-diversità.
Dopo l’appiattimento della massificazione culturale e quello delle colture agricole la diversità torna alla ribalta o si afferma in modo nuovo ed originale. Oggi la molteplicità è un valore e ne dobbiamo accettare la necessità e la parziale ingovernabilità.
Sempre più consapevoli dei danni provocati all’ambiente e al paesaggio con interventi che ne forzano l’assetto naturale, provocandone la distruzione, ci si accorge che la diversità biologica e territoriale non solo ha una bellezza intrinseca ma può anche rappresentare una risorsa..
Quando non si può più andare avanti allora ci si deve fermare. E’ nell’ordine delle cose.
Si pensi alle ristrutturazioni di cascine e casolari che diventano agriturismi o case-vacanza per benestanti proprietari nord-europei, al recupero di colture autoctone dimenticate e certificate da nuove sigle di tutela (I.G.P., D.O.P….), agli allestimenti sempre più filologici delle rievocazioni storiche, alla riscoperta dell’artigianato artistico e ripristino di materiali desueti, ai musei delle civiltà contadine e ai piatti tipici tradizionali tornati prepotentemente in auge quale sinonimo di qualità e rinnovato buon gusto.
Sono tutti esempi di uno sguardo retrospettivo profiquo sia sul piano della resa economica che su quello della qualità della vita. Chi si orienta verso questa dimensione lo fa certamente anche perchè vi trova un significato esistenziale, ritmi e modalità di lavoro ugualmente intensi ma forse più motivanti e collaborativi, una vicinanza alla natura che rende più lieti e pronti ad aiutarsi gli uni con gli altri, nel solco di una solidarietà di cui le vecchie generazioni appartenenti alle famiglie numerose di un tempo, cantano valori e virtù.
Ora però ciò che dobbiamo chiederci è quanto di tutto questo possa interessare le nuove generazioni, dal momento che durante la serata si è parlato di presentare il libro alle scolaresche, accompagnando l’evento con il racconto diretto del proprio vissuto da parte di qualche anziano, cosa che del resto sostengo da tempo.
Quanto di tutto ciò che noi crediamo un valore è sentito come tale anche da altri, soprattutto se ormai avvezzi a ben altro fin dalla più tenera età?
Per noi infatti si tratta di far rivivere qualcosa di cui sentiamo la mancanza, mentre per i ragazzi si tratta di qualcosa in più che gli viene propinato, a meno che all’interno della loro famiglia non ci siano stati nonni o bisnonni che li hanno già avvicinati alle questioni di cui stiamo discorrendo.
Quel poco di esperienza che ho maturato con i ragazzi mi suggerisce che bisogna suscitare curiosità per ottenere attenzione. Ciò diventa possibile solo se quanto viene raccontato o mostrato coinvolge non solo il loro sguardo e la loro testa, ma anche il sentire ed il fare, cioè se si lega la teoria alla prassi attraverso laboratori pratici.
Appena dall’altra parte del fiume Cesano, proprio di fronte al Parco, nel territorio di Corinaldo, un vecchio mulino, diventato museo, offre questa opportunità a cui il libro può appoggiarsi, come ho più volte fatto presente ad educatori e presidenti vari, tra altre varie proposte.
Non si ottiene nulla senza coinvolgimento diretto delle persone a cui si vuole rivolgere il messaggio se non già motivate di per sè.
Non è un caso che l’oratorio di Castelvecchio, circa due settimane fa, fosse gremito di ragazzi (ed adulti) pronti ad ascoltare i loro piccoli amici che recitavano una commediola in dialetto. E come si divertivano! (Certo però che vedere dei ragazzini di 9/11 anni truccati da uomini e donne anni ’40 intercalare una frase con un bicchiere di vino non è proprio il massimo….; forse sarebbe opportuno pensare a qualcos’altro….Non la smetterò mai di ribadire che certe feste o certe manifestazioni che prospettano il bicchiere facile come la cosa più sana e naturale del mondo non recano un gran servizio nè alla società nè ai ragazzi, tanto più in un’epoca quale questa in cui l’alcolismo è una vera piaga, che miete ogni giorno molte giovani vite!)
Coinvolgere dunque, e coinvolgere positivamente, magari andando alla riscoperta di vecchi mestieri, dal calzolaio all’aggiustatore di biciclette, dalla sarta alla ricamatrice, dall’uomo che fa i cesti al falegname. Saper usare le mani non è solo prerogativa dell’artista ma anche di un bravo artigiano e di bravi artigiani ci sarà sempre bisogno.
Solo un’ultima osservazione. Come spesso accade anche in questo libro di storie manca la voce delle donne, tranne che per un paio di esempi. Non se ne trovano mai nè tra pittori, filosofi o capi di stato. Quando compaiono sono come aghi in un pagliaio. Eppure esistono e sono più degli uomini, e alla pari degli uomini hanno contribuito a creare questa nazione, così com’è oggi, attraverso il loro lavoro nelle fabbriche quando i padri ed i mariti erano in guerra, o come staffette partigiane, e poi con il loro silenzioso esserci comunque, come mogli obbedienti, madri amorose, badanti col doppio lavoro, nei campi ed ai capezzali dei vecchi, sempre meno pagate degli uomini, nonostante la fatica delle gravidanze, dei parti o degli aborti. E spesso violentate ed ancora oggi ammazzate da compagni padroni che mal ne digeriscono l’autonomia, il libero pensiero, l’indipendenza..
Persino Papa Francesco, rivoluzionario anche nel modo di considerare la donna, ne rivendica il pieno diritto all’uguaglianza con gli uomini, di cui spiritosamente denuncia la mancanza di responsabilità.
“E’ cominciato tutto fin dall’episodio riportato nella Bibbia – dice – quando Dio, arrabbiatosi con Adamo per via della mela, si difese dicendo: “Chi…? Io…? E’ stata lei a darmela…, io non c’entro niente….” “
A giudicare dall’aumento della violenze domestiche contro le donne temo che molti uomini non abbbiano accettato di buon grado neppure quel po’ di libertà che il femminismo ci ha fatto guadagnare. Non vorrei davvero che fra le cose del passato a cui molti guardano con nostalgia ci sia anche quel certo modo di trattarci che pensavamo superato. Siamo italiani o talebani?
Sarebbe bello riuscire a mettere l’universo femminile al centro di un progetto di recupero, alla luce della trasformazione del ruolo della donna nel tempo, e nel tentativo di riequilibrare i rapporti tra i sessi. Mi piacerebbe che oggi molte bambine non avessero come modello di riferimento solo la cantante o la velina, così come i maschietti la carriera di calciatore o del pilota di formula uno, entrambi illusi da grandi e facili guadagni e che la si smettesse una buona volta di identificare la libertà e l’uguaglianza tra i generi con il libertinaggio in bella mostra in certi reality televisivi.
Uomini e donne avrebbero ben altro da realizzare e raccontare., se solo la smettessero di farsi manipolare.
17 maggio 2015